Per quanto veloce e godibile, «Il signore della guerra di Marte» di Edgar Rice Burroughs (The Warlord of Mars, 1913), episodio conclusivo delle avventure di John Carter, non si mantiene all’altezza dei precedenti: ne scarta infatti le parti migliori e ne copia le peggiori, incartandole in un disperato inseguimento del protagonista da un capo – o meglio: polo – all’altro di Marte che però manca di una vera storia. Per carità, rimane un libro gradevole – c’è azione a non finire – ma ha il sapore del brodo allungato troppe volte.
Una brutta copia dei precedenti
Pubblicato sul solito All-Story in quattro puntate, dal dicembre 1913 al marzo 1914, e poi in volume già nel 1919, «Il signore della guerra di Marte» chiude il ciclo di avventure canoniche di John Carter su Marte, che dall’episodio successivo passerà il testimone al figlio Carthoris: pronto nel cassetto già all’uscita del precedente «Gli dei di Marte», col quale forma un tutt’uno più o meno omogeneo, questo libro punta più a capitalizzare sul personaggio e sull’ambientazione che a raccontare una storia originale.
Infatti, come ho anticipato nel cappello, si disfa di tutte le parti migliori dei due precedenti episodi per tenere quelle peggiori, come la sfilza di coincidenze e colpi di fortuna che scandiscono la storia o la finta ingenuità del protagonista (mescolata alla sua ancor più falsa modestia), che serve solo per giustificare come abbia fatto a cacciarsi in nuove situazioni di pericolo, anche quando erano telegrafate. Eppure Carter finisce sempre in mezzo ai guai come uno sprovveduto, ed ogni volta Burroughs deve tirarlo fuori inventandosi nuovi stratagemmi: solo che ad un certo punto queste trovate non sono più così nuove ma sono solo l’ennesima ripetizione di un copione già visto altre volte in questa stessa serie (come il nobile eroe che passa di lì e salva Carter all’ultimo momento o i cospiratori che, credendosi soli, rivelano il loro piano proprio davanti all’eroe che è nascosto e via dicendo).
Così la storia perde un po’ in creatività ed idee, che erano invece il pezzo forte dei precedenti episodi. Le novità non mancano, certo, ma sono poche e, com’è stato appena osservato, hanno tutte il sapore del già visto, quando addirittura non contraddicono quanto era stato stabilito in precedenza: le paludi e le giungle dell’equatore ad esempio fanno a pugni con l’ambientazione (per essere un pianeta deserto inizia ad esserci un po’ troppa acqua e vegetazione); ed il Polo Nord dove vivono i gialli presenta alcune buone idee (come le cupole che proteggono le città dal freddo e le trasformano in giardini) ma crolla quando, per spiegare il mistero che lo accompagna, Burroughs deve ricorrere ad un espediente risibile come la colonna magnetica che attira a sé tutte le navi volanti e le fa naufragare.
Tuttavia l’azione è frenetica proprio come ci aspetta e così nell’insieme la storia si lascia leggere volentieri: ma alla fine non rimane nulla.
Un inseguimento senza sosta
Ceduto al figlio Carthoris il governo di Helium per restare vicino a Dejah Thoris, ancora prigioniera nel tempio del sole, Carter trascorre i sei mesi successivi alla caduta di Issus e dell’antica religione al polo sud per trovare il modo di liberare la moglie dalla prigionia: ha il sostegno di buona parte del pianeta perché, incredibilmente, quasi tutti i marziani hanno accolto di buon grado e rapidamente il crollo dei loro dei. Persino i neri Primi Nati, al cui comando Carter ha posto l’amico Xodar, se ne restano tranquilli e non rimpiangono né i saccheggi né la pirateria di un tempo: solo i bianchi Thern, che invece si considerano ancora gli dei di Marte, continuano a rifiutare il nuovo ordine mondiale; ed il loro sacro Hekkador Matai Shang trama nell’ombra contro l’eroe, forte dell’alleanza di alcune potenti città.
Quando il libro si apre Carter, sempre accompagnato dal fedele Woola (il mostruoso calot trasformato in una sorta di cagnolino fedele ancora nel primo episodio), sta seguendo di nascosto un certo Thurid, l’unico nero che gli si opponga apertamente: personaggio marginale del precedente libro, questi aveva avuto un ruolo trascurabile da bulletto ma era bastato un cazzotto di Carter sul grugno per metterlo in riga. A causa di quell’incidente però il Primo Nato gli è ostile: ed infatti già dopo poche pagine questi ha un incontro segreto con Matai Shang nelle caverne in cui scorre il fiume sacro Iss, al quale assiste non visto anche Carter. Esaminando i documenti di Issus, la ex dea dei neri fatta a pezzi dai sui stessi sudditi su istigazione del terrestre, Thurid ha infatti trovato un passaggio segreto che permette di penetrare a piacere nel tempio del sole, le cui stanze ruotano e diventano accessibili solo un giorno all’anno ciascuna: perciò, nonostante l’odio razziale tra Primi Nati e Thern, il nero ha stretto un’alleanza con Matai Shang solo per rapire Dejah Thoris e così vendicarsi del comune nemico.
Pur sbagliando strada più volte, Carter li segue per canali e caverne scavate nel sottosuolo della valle di Dor ed alla fine giunge nella grande sala dove ruota il perno del tempio del sole: ma arriva un momento troppo tardi e fa in tempo solo a vedere i due nemici ed alcuni dei loro tirapiedi che stanno portando via Dejah Thoris e Thuvia mentre Phaidor, che è la figlia di Matai Shang, li segue volontariamente.
Inizia così l’inseguimento da un capo all’altro del pianeta che costituisce l’intera storia.
Tappa forzata all’equatore
La caccia porta Carter dapprima in una fortezza ancora presidiata dai Thern dove, usando un travestimento (una delle parrucche bionde portate dai bianchi, che sono pelati e si vergognano della loro calvizie), si spaccia per uno di loro: le guardie sembrano cascarci e non solo lo lasciano passare ma gli dicono anche dove può trovare Matai Shang e gli altri. Carter è così sicuro di sé che non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che potrebbe essere una trappola ma si getta al di là della porta che gli viene indicata, che infatti subito dopo il suo passaggio viene chiusa a chiave con una «maligna risata»: e così suona involontariamente comica la sua ammissione che questo «fu il primo indizio che non tutto andava secondo i miei calcoli». Tuttavia la trappola fallisce e Carter riesce quasi a raggiungere la combriccola dei fuggitivi quando questa prende il volo: Carter non può far altro che inseguirli con un altro velivolo ma, quando raggiungono l’equatore, viene abbattuto.
Attaccato da una creatura che infesta le paludi, l’eroe viene salvato all’ultimo momento da un nobile della città di Kaol – la più importante della zona – che gli dà tutte le indicazioni di cui aveva bisogno: anche che Matai Shang e soci sono sbarcati nella sua città e sono ospiti del Jeddak Kulan Tith.
Entrato a Kaol con un sotterfugio che gli fa guadagnare anche il rispetto delle guardie e del Jeddak stesso, subito dopo Carter riesce a ingraziarsi anche un altro monarca, ospite del signore locale: è Thuvan Dihn, Jeddak di Ptarth e – che combinazione! – padre di Thuvia, che è ancora prigioniera di Matai Shang assieme a Dejah Thoris. Carter e Thuvan Dihn legano subito («quella notte ebbe inizio un’amicizia seconda soltanto a quella che mi lega a Tars Tarkas, il verde Jeddak di Thark», spiega l’eroe) e assieme fanno leva su Kulan Tith perché convochi Matai Shang e Thurid e li obblighi a consegnare le prigioniere: Matai Shang finge di cedere ma, adducendo la tarda ora, si offre di farlo all’indomani mattina, per evitare alle signore di essere svegliate proprio nel cuore della notte. Tutti acconsentono e non immaginano l’inganno, nemmeno il nostro eroe: ma l’indomani mattina del Thern e del suo seguito non c’è traccia, perché subito dopo l’udienza sono fuggiti con la stessa nave volante con cui erano giunti giorni prima.
Di nuovo insieme
Nuovo inseguimento, questa volta fino al polo nord: adesso Carter è accompagnato da Thuvan Dihn, ansioso di liberare la figlia. La loro nave precipita poco prima di raggiungere la massa di ghiaccio eterno che fa da corona al polo: ma dopo un’esplorazione a piedi i due trovano l’accesso alle leggendarie Caverne dei Cadaveri, dove si dice che nel lontano passato i gialli, nella loro fuga davanti alle orde dei verdi, abbiano accatastato i morti dell’ultima grande battaglia combattuta contro i loro inseguitori, per poi chiudersi nell’isolamento del polo nord. L’odore dei corpi in decomposizione, e la presenza dei terribili apt, animali feroci che infestano le grotte e divorano qualsiasi cosa, sarebbero serviti per tenere alla lontana tutti i malintenzionati.
Tuttavia i due le superano agevolmente, non prima però di aver rispedito Woola ad Helium con un messaggio di aiuto per Carthoris: e non appena sbucano dall’altra parte salvano da un’imboscata un nobile giallo che, si scoprirà, è il principe Talu di Marentina, nipote e principale oppositore del malvagio Salensus Oll, Jeddak di Kadabra, la città più potente di Okar, la terra dei gialli. Per riconoscenza Talu li conduce a Marentina, la sua città ribelle, dove i due vengono truccati per assomigliare ai gialli e anche addestrati per passare inosservati: infatti, sempre per le coincidenze, Matai Shang ha riparato proprio a Kadabra con le sue prigioniere.
Infiltrarsi in città è facile e tutto sembra andare per il meglio: dimenticandosi del travestimento, Carter arriva persino ad avvicinare Dejah Thoris e Thuvia. Ma il travestimento è così buono che le due donne non lo riconoscono e chiamano aiuto. Nemmeno a farlo apposta, Matai Shang e Thurid sono appena comparsi in scena: così l’identità di Carter viene rivelata ancora una volta e Carter può essere condotto all’ennesimo supplizio da cattivo di James Bond. Viene calato nel cosiddetto «Pozzo dell’abbondanza», dove il condannato non riceve alcun cibo ma viene continuamente torturato dalla vista di manicaretti irraggiungibili, perché si trovano dietro spessi vetri.
Dopo giorni trascorsi in questa prigione senza uscita, Carter può finalmente fuggire: tra le guardie di palazzo c’è infatti un agente di Talu, che lo aveva riconosciuto grazie ad un particolare anello che solo pochi fedelissimi del principe – tra cui Carter e la finta guardia – portano al dito. Così una notte l’agente del Jeddak ribelle cala una corda nel pozzo con del cibo e le istruzioni per la fuga. Carter deve infatti risalire la fune fino a metà pozzo, dove c’è un corridoio (segreto: serve dirlo?) che conduce nel palazzo di Salensus Oll: una volta all’interno dovrà seguire un’altra corda sino alla salvezza. Ma il cammino lo porta nella sala dei bottoni – o meglio, delle leve – della città, compresa quella che attiva la colonna magnetica contro la quale sono condannate a fare naufragio tutte le navi volanti. Quando compare sulla scena, non visto, fa in tempo ad origliare la conversazione tra Thurid ed il custode di questi macchinari, che finge di lasciarsi corrompere ma intanto mostra come si fa ad interrompere la corrente il tempo necessario a permettere la fuga dello stesso Primo Nato con Dejah Thoris: è infatti la notte del suo matrimonio forzato col Jeddak di Kadabra ed il nero la vuole rapire prima della cerimonia.
Negli sviluppi della situazione, ingarbugliatissima, Carter piomba in una stanza dove una dozzina di schiavi rossi sono messi a lavorare: tra di loro ci sono anche il suocero ed il cognato scomparsi. Li incita alla ribellione, che immediatamente getta nella confusione l’intera città: caso vuole che in quella arrivi anche la spedizione di Helium guidata da Carthoris e Tars Tarkas, che hanno ricevuto il messaggio portato da Woola. Kadabra cade ma Carter si lascia soffiare ancora una volta la moglie da sotto gli occhi: mentre combatte non si accorge infatti che la donna, che alle sue spalle lo stava sostenendo col canto, smette improvvisamente di cantare. Lui prosegue a lottare per più di un’ora e quando finalmente si gira verso la moglie, lei è scomparsa: Thurid infatti l’ha rapita – anzi: gliel’ha soffiata da sotto il naso – e la sta portando alla nave volante dove li aspettano Matai Shang e Phaidor per una nuova fuga.
Ma Carter giunge giusto in tempo e, mentre si arrampica sulla fiancata della nave che prende quota, esplode finalmente l’odio tra Thurid e Matai Shang: l’eroe sta per scavalcare il parapetto quando il nero riesce infine a gettare il Thern nel vuoto e rivolge l’attenzione su lui. E quando anche Phaidor si unisce alla lotta, Carter comprende di essere spacciato. Ma invece di attaccare lui la ragazza pugnala ripetutamente Thurid e poi ne getta il cadavere fuori bordo, per vendicarsi della morte del padre: spiega di averlo fatto perché si è resa conto dell’amore che unisce Carter e Dejah Thoris e vuole emendare tutto il male che ha fatto loro. Poi, per espiare davvero tutto, anche lei si getta nel vuoto.
Il finale è una festa che riunisce ad Helium i Jeddak di tutte le principali città del pianeta e si conclude con l’acclamazione di Carter a signore della guerra di Marte.
Un epilogo gradevole ma scialbo
Sulla qualità della storia già si è detto: «Il signore della guerra di Marte» non è all’altezza delle due uscite precedenti. Nell’insieme riesce comunque gradevole, non solo perché conclude l’arco narrativo delle avventure di Carter ma anche perché è scritta nello stile ben ritmato di Burroughs, che privilegia l’azione all’introspezione, della quale peraltro compaiono fin troppi esempi a causa della narrazione in prima persona, che la finta modestia del protagonista rende a tratti persino comica.
Il libro però ha un suo ruolo nel ciclo di Barsoom: innanzitutto, dà un finale alla storia del suo personaggio principale, dopo ventidue anni di separazioni e struggimenti. Così a partire dal volume successivo Burroughs potrà dedicarsi ad un nuovo protagonista, il figlio Carthoris, che è ancora tutto da scoprire.
In secondo luogo, amplia ancora la geografia di Marte, che si scopre essere un pianeta molto più vario di quanto si credesse: anzi, tra mare perduto di Korus, mare sotterraneo di Omean, paludi equatoriali e ghiacci perenni al polo nord, inizia ad esserci acqua in abbondanza per quello che doveva essere un mondo deserto. L’improvvisa comparsa di tutta questa acqua però rende possibili diversi ambienti, che così rompono la monotonia altrimenti rappresentata da un mondo morente ricoperto di solo muschio.
C’è poi l’aggiunta dei nuovi personaggi, che rendono sempre più multietnico il gruppo dei coprotagonisti: ora include almeno un rappresentante per ciascuna delle razze principali, con la sola eccezione dei marziani bianchi, rimasti i soli a ribellarsi alla guida di Carter. Qui però non si tratta del solito slogan della diversità che ci rende tutti migliori ma è qualcosa di più simbolico e personale: da un lato mostra infatti la capacità di un terrestre di unificare un pianeta da sempre frammentato e in guerra; dall’altro sottolinea l’importanza dei rapporti di amicizia sincera, al di là dell’aspetto fisico. Perché se Carter è riuscito a frantumare la barriera fisica e culturale che divide i marziani per così dire «umani» dai marziani verdi (Tars Tarkas è il suo migliore amico, lo dichiara anche qui), farsi amici tra le altre razze di aspetto umano è un gioco da ragazzi, perché già in partenza c’è un elemento che accomuna tutti: l’umanità appunto. E questo invito all’amicizia vera che ignora l’involucro per concentrarsi sul contenuto è un esempio da seguire per tutti.
Poco importa che, tolto Carter, tutti gli altri personaggi sono dei burattini quasi privi di volontà propria: tutto infatti ruota attorno all’eroe ed i comprimari hanno il solo scopo di farlo brillare in ogni momento. In questo libro lo si nota ancora più che nei precedenti, dato che non compare nessuno nei vecchi compagni se non in un’apparizione fugace – un cameo, come piace dire – ed il suo nuovo amico Thuvan Dihn è come un automa che Carter si porta dietro, fa tutto quello che l’eroe vuole e poi scompare al momento opportuno.
Un quarto elemento per cui il libro ha un suo ruolo nel ciclo sono le idee: poche e di qualità inferiore rispetto ai precedenti ma ci sono, come le già citate cupole che proteggono le città dal freddo del polo nord o le strade urbane ricoperte d’erba, che ho trovato particolarmente indovinate. E dalle idee derivano anche alcune scene memorabili: come il pedinamento iniziale di Carter ai danni di Thurid, che nei primi quattro capitoli ne segue con ostinazione le tracce nel dedalo di caverne naturali, trappole ingegnose e corridoi scavati dall’uomo nel cuore delle montagne del polo sud. Sono scene suggestive che riescono a ricreare l’atmosfera del più classico dungeon da gioco di ruolo fantasy: o forse proprio a queste pagine si sono ispirati i pionieri dei giochi di ruolo, come dimostrerebbe la citazione del ciclo di Barsoom nella famosa Appendice N.
Nell’insieme però è un bene che le avventure di Carter siano finite con questo libro, perché la storia è ormai giunta alla sua conclusione e Burroughs sta chiaramente raschiando il fondo del barile alla ricerca di spunti e colpi di scena: infatti è ormai scomparso ogni riferimento a tutto quello che aveva conquistato il lettore nella «Principessa di Marte», come il superatletismo di Carter, la telepatia dei marziani, gli strani costumi del pianeta, la durezza di un mondo che deve sopravvivere con poca aria e ancora meno acqua.
Ma per fortuna il ciclo non si è fermato qui perché Barsoom ha ancora molto da offrire, una volta superato l’ostacolo di «Thuvia, la fanciulla di Marte», il prossimo episodio.
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