Non sono mai stato un appassionato di Descent e dungeon crawler ma di recente un’amica ha acquistato il nuovissimo Leggende delle tenebre (l’ha preso in italiano, sì) e mi ha invitato a partecipare alla campagna: così ho avuto modo di provarlo in diverse occasioni e di farmi un’idea del gioco in sé. Perché nel bene o nel male Descent è stato la nuova uscita più attesa dell’anno ed è già divenuto il gioco simbolo del 2021.
Peccato solo che sia un videogioco.
Più videogioco che gioco da tavolo
Uscito nel 2005 e riveduto nel 2012, Descent è il capostipite dei dungeon crawler, quei giochi solitamente cooperativi – o al massimo uno contro tutti, com’era appunto Descent – in cui un gruppo di eroi scende nelle profondità della terra per sconfiggere il male o anche solo saccheggiarne i tesori: sono i classici giochi di ruolo light, quelli in cui i giocatori non fanno altro che menare le mani trascurando tutta la parte interpretativa e balzando di scenario in scenario secondo lo schema di una semplice storia preconfezionata. Nell’insieme sono un buon surrogato dei giochi di ruolo per chi non ha più il tempo di praticarli attivamente e funzionano benissimo come giochi da tavolo.
Tornando a Descent, l’estate scorsa all’improvviso è stata annunciata una revisione completa del gioco, che all’inizio di agosto di quest’anno (settembre in Italia) ha portato a questo Leggende delle tenebre, ossia la terza edizione in tutto tranne che nel nome: e subito ha sollevato un vespaio tra gli appassionati della serie, che si sono sentiti traditi. Infatti, senz’altra ragione che cambiare tanto per cambiare, la Fantasy Flight (l’editrice americana) ha deciso di abiurare le due precedenti edizioni per seguire una strada completamente nuova, quella tutta alla moda dei giochi che non possono essere giocati senza ricorrere ad un’app gratuita. Così, con uno schiocco di dita, ha trasformato Descent in un cooperativo pieno: ma ha anche reso superfluo il ruolo chiave del master od «overlord», che era al tempo stesso il più difficile ed il più divertente delle vecchie edizioni, sostituito appunto dall’app, che è fatta così bene da sembrare quasi un videogioco.
Non soddisfatta di aver cancellato quindici anni di storia in un fiat, la Fantasy Flight ha cambiato anche tutto ciò che costituiva l’identità specifica di Descent, il suo carattere, per adottare un nuovo stile nelle illustrazioni (che non è brutto di per sé ma è generico e non lega con le precedenti edizioni) e forzare a martellate gli ormai immancabili temi di giustizia sociale ed inclusione, dei quali importa gran poco ai giocatori storici e a buona parte dei nuovi: chi gioca è interessato a divertirsi e staccare dalla quotidianità, non alle continue recriminazioni e ai piagnistei sull’aria fritta che ormai ammorbano ogni aspetto della vita.
Così i vecchi appassionati hanno subito rigettato questa nuova edizione ancor prima di poterla provare: e, visto il risultato, forse hanno fatto bene.
Anch’io probabilmente non avrei mai giocato a questo Leggende delle tenebre se non avessi ricevuto l’invito da parte dell’amica, che ringrazio per avermi coinvolto (grazie, Luisa!): e, da non partigiano di Descent, devo riconoscere che è divertente, sì, ma nulla più; e lo è soprattutto per il piacere dello stare con un gruppo di amici affiatati.
Dopo aver giocato diverse missioni devo anche aggiungere che questo nuovo Descent non sembra affatto un gioco da tavolo: dà piuttosto l’idea di un videogioco con alcuni componenti tangibili, al punto che presto si arriva a provare quasi fastidio quando l’app richiede di staccarsi dallo schermo per interagire con la plancia.
L’app, un piccolo tiranno
Il vero gioco infatti è l’app: tutto ruota attorno al programmino elettronico, che non decide solo le attivazioni dei nemici, il danno che fanno o ricevono, l’eroe che viene preso di mira, i tesori che si rinvengono ma rimpiazza persino i mazzi di carte, tanto che le sole carte incluse nella scatola sono paragonabili a dei bugiardini per aiutare i giocatori a ricordarsi gli oggetti equipaggiati e le loro caratteristiche.
Tolti infatti i tiri di dadi e lo spostamento delle miniature sulla plancia (sarei cauto però a definire così le mappe tridimensionali che si creano, belle da vedere ma poco pratiche da usare), tutto si deve fare tramite il programma informatico: e nemmeno dei risultati ottenuti sui dadi si può essere sicuri, perché i dadi indicano solo il numero di successi ottenuti, che è poi l’app a tradurre in danni, dopo aver tenuto conto degli eventuali modificatori.
L’app diventa così un piccolo tiranno che con la scusa della storia costringe i giocatori a scegliere l’avventura successiva da una lista limitata di missioni sbloccate e non permette nemmeno di ripetere le avventure fallite. Dal momento che in questo Descent la storia – banalissima e genericissima persino per l’high fantasy, che è generico e banale per definizione – è sovrana, un’avventura che si è persa viene comunque considerata completata dall’app ed attiva una serie di conseguenze sulla campagna che dovrebbero personalizzare la storia secondo l’esperienza del gruppo: ma è impossibile appassionarsi ad una storia senza mordente come quella alla quale si è costretti a prendere parte o interessarsi alle vicende di un gruppo di personaggi così blandi e privi di personalità come i sei inclusi, nonostante le interminabili «cutscenes» da videogioco che dovrebbero farceli sentire più vicini e reali.
Non c’è nemmeno la possibilità di ripetere le avventure già sbloccate o completate (comunque siano andate) al di fuori della campagna perché l’app costringe i giocatori a giocare solo la campagna e non dà la possibilità di fare partite casuali al di fuori di essa: così se per una certa ragione era piaciuta, mettiamo, la settima missione occorre far partire una nuova campagna, completare le avventure precedenti sino a sbloccare quella che desideriamo e finalmente giocarla, una volta sola perché poi scompare, ma senza l’equipaggiamento che vorremmo usare, perché è l’app a decidere anche quello, col meccanismo dei «drop» tipico dei videogiochi. Che poi è una sorta di regalo d’addio del nemico sconfitto e di incentivo a proseguire nella campagna di sterminio.
Così ogni volta che viene ucciso un mostro o si interagisce con una cassa, un albero, una libreria o un qualunque altro pezzo d’arredamento si possono trovare ingredienti, ricette o frammenti di armi che poi, una volta in città, si possono convertire in pozioni, miglioramenti e altro materiale utile. È un altro meccanismo ricavato dai videogiochi, quello del «crafting», che permette di personalizzarsi l’equipaggiamento: si raccolgono materiali che poi, con le ricette (=istruzioni) corrette, si trasformano in potenziamenti. E così tra drop, crafting, cutscenes e mediazione continua dell’app l’impressione di giocare ad un videogioco si consolida sempre di più.
In pratica, i giocatori hanno le mani legate: non possono nemmeno provare ad usare armi diverse dalle due che gli autori hanno assegnato a ciascun personaggio, perché per convertire i successi in danni occorre dire all’app anche quale arma si sta usando, scegliendola tra le due previste per quell’eroe, che però sono sempre le stesse combinazioni. Cambiano magari i nomi, l’aspetto e le proprietà dell’arma che si sta usando perché durante le avventure si possono trovare un paio di alternative alle dotazioni originali ma si tratta sempre di variazioni dello stesso concetto: ad esempio, sempre e solo doppia spada o arco per Galaden, l’elfo sordomuto (la giustizia sociale trionfa ancora) che partecipa attivamente a tutte le discussioni e viene pure svegliato di soprassalto dal rumore. Magari nei vagabondaggi si trovano anche miglioramenti che è possibile creare (anzi, «craftare») con ricette ed ingredienti rinvenuti altrove e poi assegnare in maniera non permanente all’arma per cui ciascuno di essi è pensato ma le armi rimangono sempre quelle: così non è possibile sperimentare combinazioni particolari e non autorizzate dagli autori, come ad esempio armare Galaden con uno spadone a due mani, o una balestra, o una mazza e scudo (anche perché nel gioco non ce ne sono), perché l’app non prevede quelle combinazioni arma-eroe e quindi non permette di usarle.
È la dittatura dell’app che, una volta esaurita la novità, finisce per restringere le possibilità invece che espanderle: all’inizio sembra di avere una libertà quasi infinita nel gioco ma, blocco dopo blocco, presto non si può fare a meno di rendersi conto che in realtà l’app lascia molta meno libertà di un gioco tradizionale, che le alternative sono scarsine e che alla fine tutto è binariato, quasi un letto di Procuste.
Perché tutto deve stare dentro all’app.
Tanto fumo e poca sostanza
Quando ho iniziato a scrivere questa recensione ero abbastanza neutrale: nell’insieme infatti mi sto divertendo a giocare Descent. La centralità dell’app non mi entusiasma ma, come ho già affermato altre volte, non sono contrario a priori all’integrazione tra gioco da tavolo e programmi informatici quando è fatta bene: il gioco da tavolo di Xcom, che ho già recensito, ne è l’esempio più illustre.
Man mano che proseguivo a scrivere la recensione però mi sono reso conto di due aspetti che fino a quel momento avevo trascurato: primo, che Descent mi piace perché mi piace soprattutto la compagnia dei tre amici con cui sto condividendo l’esperienza; secondo, che il mio vero giudizio del gioco non è poi così neutrale come credevo ma anzi è piuttosto negativo, guastato proprio dalla centralità dell’app, che rende Descent davvero più videogioco che gioco da tavolo. Anzi, troppo videogioco.
Così ho aggiustato il tiro per concentrarmi esclusivamente sull’app, perché in definitiva l’app è Descent: tutto il resto è contorno, «eye candy», una gioia per gli occhi, bello da vedere ma senza sostanza. Infatti, tolta la parte informatica, del gioco rimane ben poco, a parte le belle mappe tridimensionali, che però si devono costruire man mano e così allungano i tempi di gioco e distolgono l’attenzione: pare sia fatto per evitare gli «spoiler» (le anticipazioni della trama, alle quali tutti sono improvvisamente diventati allergici) che, se già fanno sorridere quando si tratta di un film o di un libro, in un gioco da tavolo fanno morire dal ridere.
Già che ho accennato allo scarno contorno, merita dire che le regole della terza edizione di Descent sono semplicissime e gestite quasi interamente dall’app: ai giocatori rimane poco da fare, solo contare gli spazi per il movimento, tirare qualche dado (solitamente uno: un solo dado per colpire per tutta la campagna!) e al massimo mettere o togliere qualche segnalino. L’unica regola degna di menzione è la possibilità del doppio attacco, che pochi giochi permettono ma in Descent diventa addirittura questione di sopravvivenza, perché i mostri arrivano già ipervitaminizzati e vanno affrontati in un dato ordine, per evitare che possano darsi ulteriori bonus reciproci.
Le miniature stesse sono molto belle ma troppo grandi, fuori scala per gran parte dei giochi ed in particolare per le precedenti due edizioni di Descent, che ne usavano di più piccole: tuttavia sono leggerissime e delicatissime e, a parte i dettagli strepitosi, hanno la consistenza delle miniature uscite da una stampante tridimensionale, quindi abbastanza sgradevole al tatto.
I personaggi invece, come detto, hanno la personalità di una scatola di scarpe ma portano con sé lunghissime ed intricatissime storie personali prive di interesse che i giocatori sono costretti a subire, almeno due volte per missione: non esiste un modo per saltare queste scenette, composte da decine di schermate nelle quali gli eroi discutono su qualche evento al quale non si presta la minima attenzione così come non si era fatta alcuna attenzione in precedenza. Ma l’insistenza sulla storia come elemento caratterizzante del gioco è un altro elemento per nascondere l’assenza di vere qualità.
Così si ritorna al letto di Procuste al quale si è accennato in precedenza: i giocatori non hanno nessuna vera libertà di fare quello che desiderano ma in buona sostanza devono accettare ciò che l’app decide per loro. Così non possono scegliere la missione che preferiscono, nemmeno al di fuori della campagna, perché non esiste una modalità «non campagna», ma devono accontentarsi di una delle due o tre alternative permesse; non possono scegliere l’equipaggiamento che vogliono perché la scelta è sempre limitata a quello che l’app ha fatto trovare in precedenza; e non possono nemmeno saltare le parti che trovano fastidiose, come i dialoghi appunto, perché l’app le impone a forza. In pratica, è l’app che gioca, anche per conto loro.
Nell’insieme quindi Descent assomiglia più ad un videogioco e tutto nel gioco rinforza questa impressione: persino Destinies, un altro gioco che dipende interamente dall’app, sembra più gioco da tavolo e meno videogioco di questo Descent.
Solo per il titolo merita di essere letto questo articolo. Scherzi a parte, molto utile per farsi un idea del gioco.