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Ray Cummings – I pirati dello spazio

A volte basta davvero un titolo per accendere la fantasia del lettore: si prenda ad esempio «I pirati dello spazio» di Ray Cummings (Brigands of the Moon, 1930), un’avventura spaziale degli anni Trenta che soddisfa tutte le aspettative – è pieno fino all’orlo di azione, superscienza, fiducia nel futuro e ne trabocca pure, con l’aggiunta del più classico dei burattini superprotagonisti – ma in definitiva delude per la presenza sovrabbondante di un altro requisito tipico dell’epoca – la storia di baci – che finisce per sciupare quanto di buono avrebbe da offrire la storia.
In altre parole, è un bel libro con una brutta trama.

Pirati o briganti ma sempre marziani
Di Ray Cummings ho già parlato alcuni mesi fa: in quell’articolo scrivevo appunto che sarebbe un autore migliore se non avesse il brutto vizio di aggiungere fastidiose sottotrame amorose alle sue storie. Tutto il resto, dai personaggi monodimensionali alla storia binariata (superscienza inclusa), sarebbe anche accettabile se non addirittura gradevole perché in definitiva rappresenta uno spaccato della fantascienza dell’epoca, più semplice e meno seriosa di quella attuale, che invece si picca di trattare argomenti impegnati come la diversità e l’inclusione, le analisi psicologiche ed altre menate simili ma nel farlo trascura di essere divertente. Cosa che invece la fantascienza di Cummings e degli altri autori del tempo sapeva essere, e senza vergogna: era evasione pura.
Pubblicato dunque a puntate su Astounding (quattro: dal marzo al giugno 1930) poi riunite in volume già l’anno seguente, «I pirati dello spazio» è un romanzo spaziale ancora limitato al sistema solare, tra Venere e Marte: un orizzonte ormai ristretto, tenuto conto che solo due anni prima l’Allodola dello Spazio aveva esteso la frontiera all’intera galassia e nel farlo aveva anche inventato la space opera. Addirittura, gli eventi decisivi di questo romanzo si consumano praticamente sulla soglia di casa: sulla luna, appunto, come tradisce il titolo originale.
A proposito del titolo: è molto più attraente in italiano che in inglese. Già, perché nell’originale i pirati della traduzione nostrana sono semplici «briganti»: sebbene meno precisa, la traduzione italiana però sortisce un effetto (richiamare l’attenzione del lettore e risvegliarne l’interesse) che una trasposizione letterale non avrebbe potuto ottenere. È un po’ ciò che è successo ad esempio con «I pianeti perduti», la traduzione nostrana di «The Closed Worlds», secondo volume della serie del Lupo dei Cieli di Edmond Hamilton, che porta subito a undici l’attenzione del lettore laddove invece la menzione di mondi soltanto chiusi (come sono nell’originale) faticherebbe ad accendere l’immaginazione. Per non parlare poi dell’abisso che separa la «luna» dallo «spazio», la cui diversa attrattiva risulta subito evidente.
E già che ci siamo, sempre a proposito del titolo, un pirata è molto più affascinante di un brigante: il pirata dello spazio riesce persino ad essere una figura quasi romantica, l’anello di congiunzione tra le navi e le astronavi, ovvero tra le storie d’avventura classiche e quelle ambientate tra le stelle. In altre parole, i pirati dello spazio aiutano a ricordare le radici terrene o terrestri della space opera: e forse proprio per questo li si trova in così tanti libri di fantascienza. Sono infatti gli antagonisti ideali perché permettono agli autori di attingere al patrimonio delle storie di avventura classiche e rimaneggiare agilmente trame già pronte di sicura riuscita: inoltre, a differenza della loro ispirazione marittima che è caratterizzata dalla sciatteria, i pirati delle stelle lasciano intendere anche una certa conoscenza ed organizzazione, perché per sopravvivere nello spazio occorrono parecchi accorgimenti e abilità superflui sulla terra, dalla cura necessaria per garantire il funzionamento dell’astronave alla manutenzione dei sistemi di sopravvivenza della tuta spaziale.
Ma qui rischio di divagare.

Tre razze, un’unica origine
Il libro di Cummings segue le avventure di Gregg Haljan, un ufficiale navale senza compiti specifici – a parte essere il solo che s’intenda un po’ di navigazione – a bordo della Planetara, una nave commerciale che fa servizio di linea tra la terra, Venere e Marte, dov’è appunto diretta all’inizio della storia: per la cronaca, il viaggio al pianeta rosso dura sulla decina di giorni. Entrambi i pianeti sono abitati da umani o umanoidi, in tutto e per tutto identici ai terrestri: non è dato di sapere se siano razze autoctone o solo diversi ceppi di umanità adattatisi alle diverse condizioni ambientali ma dato che la storia è ambientata nel 2070 e che il volo spaziale è stato scoperto solo da pochi decenni viene fatto di credere che siano razze indigene. Solo nel seguito, «Wandl il Conquistatore» (pubblicato due anni più tardi: parlo pure di questo, più avanti nell’articolo), Cummings dà una spiegazione e dice che si tratta di razze sviluppatesi indipendentemente sui diversi pianeti ma con la medesima origine: «Noi della Terra, di Venere e di Marte siamo tutti usciti dallo stesso stampo, che chiamiamo umano. È una piccola famiglia di pianeti, nel nostro sistema solare: siamo vicini da innumerevoli eoni. La stessa luce, le stesse condizioni generali di vita, lo stesso seme sono stati posti qui da un saggio Creatore. Un uomo dell’Oriente è diverso da un anglosassone: un marziano lo è ancora di più. Ma sostanzialmente sono identici». Quello che davvero conta però è che in linea generale i venusiani sono di corporatura più delicata dei terrestri mentre i marziani sono più grandi e massicci: misurano sui due metri e trenta di altezza e sono forti e muscolosi, donne incluse.
I tre pianeti collaborano tra loro ma non vanno proprio d’amore e d’accordo: la terra, unificata da un governo globale che ha sede nella Grande New York, ha tuttavia il predominio in virtù della sua tecnologia avanzata, in particolare per quello che sono i propulsori delle astronavi. Come il Motore Federato a Radiactum, che funziona appunto a radiactum, un catalizzatore minerale assai raro: così raro anzi che il governo terrestre non ne permette l’esportazione. E proprio attorno ad un ricco giacimento scoperto (e tenuto nascosto) da un tale Johnny Grantline sulla luna ruota l’intera storia, che parte alla lontana per concludersi sul nostro satellite.

L’ammutinamento della Planetara
Pensata per essere pubblicata a puntate, la storia è troppo articolata per quello che in definitiva è: mi limiterò quindi a riassumerla per sommi capi, tagliando soprattutto le derive amorose, che sono troppe e troppo insistenti.
Haljan ed il suo amico Dan «Snap» Dean, operatore radio, stanno per decollare dalla Grande New York a bordo della Planetara, nave da trasporto di merci e persone: tuttavia a poche ore dalla partenza vengono convocati d’urgenza dal colonnello Halsey, capo del Comando Divisionale Investigativo, in sostanza una sorta di servizio segreto terrestre, che passa loro l’ordine di transitare all’andata in prossimità di un certo punto della luna, per prendere contatto col campo segreto dell’esploratore Grantline, e poi al ritorno di atterrare all’accampamento di questi, per caricare la nave del prezioso radiactum. Nessuno a bordo deve esserne informato, oltre a loro due ed al comandante della Planetara.
Solo che è il segreto di Pulcinella: i marziani in particolare sono molto interessati al carico e con l’aiuto di George Prince, un ingegnere terrestre rinnegato che lavorava per la Earth Federated Catalyst Corporation (l’azienda che costruisce il motore a radiactum) ed ora collabora coi giganti marziani, mandano all’aria il piano originale con una facilità disarmante.
Invece di attendere il viaggio di ritorno gli agenti del quarto pianeta passano all’azione già il secondo giorno di navigazione. Tra la quarantina di passeggeri della Planetara infatti viaggiano anche Set Miko e Setta Moa (Set e Setta sono l’equivalente marziano di signore e signora), fratello e sorella, ed altre figure equivoche, come Sero Ob Hahn, predicatore della religione dei mistici venusiani; Sir Arthur Coniston, gentiluomo inglese, conferenziere e viaggiatore dei cieli; Rance Rankin, prestigiatore americano; Alta Venza, cantante e ballerina venusiana; ed ovviamente George Prince, il traditore, accompagnato dalla sorella Anita. Di cui subito si innamora – ricambiato, con intensità – il nostro protagonista.
Già il giorno dopo l’uno non potrà vivere senza l’altra e viceversa: solo che, disdetta, la seconda notte di navigazione Anita muore, uccisa – pare – da un colpo accidentale partito dalla pistola del fratello durante una discussione con Set Miko. In realtà, si apprenderà molto più avanti, ad essere morto è Prince stesso, del quale Anita ha subito preso il posto, camuffandosi all’insaputa di quasi tutti: così, quando lei rivelerà la sua vera identità ad Haljan, la storia d’amore potrà finalmente sbocciare in tutta la sua stucchevolezza.
Ad ogni buon conto, il piano di Set Miko e Setta Moa è di prendere il controllo della nave già la seconda notte di navigazione: i marziani possono contare su parecchi alleati, sia tra i passeggeri (tutti i personaggi elencati sopra, con l’eccezione di Anita e Venza) sia tra l’equipaggio, a cominciare dal commissario di bordo Johnson. L’ammutinamento riesce facilmente: quasi tutti i marinai rimasti fedeli vengono uccisi nella battaglia, tranne pochi che verranno scaricati assieme ai passeggeri su un asteroide e poi dimenticati da tutti, persino dall’autore. E, ovviamente, tranne Haljan ed il suo compare Dean, tenuti a bordo perché necessari l’uno per la navigazione, l’altro per l’uso delle radio.

Epilogo d’amore
Invertita dunque la rotta, la Planetara dirige sulla luna per assalire a sorpresa l’accampamento di Grantline: ma Haljan, al quale è affidata la guida, d’accordo con Anita riesce a sbagliare la manovra di atterraggio e a sfracellare la nave sul satellite. Nella confusione che segue, il nostro fugge assieme all’amico e alle ragazze e, raggiunto l’accampamento di Grantline, dà l’allarme.
Nel frattempo la storia – soprattutto quella d’amore – ha fatto progressi: davanti ad Haljan Anita si è tolta la maschera e ha rassicurato il nostro della sua identità, del suo amore e della sua collaborazione per fermare gli ammutinati. La ragazza gli ha spiegato anche le ragioni della defezione del fratello e la dinamica del suo assassinio: licenziato dalla Federated, Prince aveva iniziato a frequentare brutte compagnie, come Miko, per il quale le conoscenze e l’esperienza acquisite dal terrestre nel precedente impiego erano preziose. Così Prince, che la sorella stessa definisce un debole, aveva finito per unirsi ai pirati: ma quando Miko si era innamorato di Anita, Prince si era opposto energicamente. La notte della morte di quegli, Miko era entrato nella camera di Anita, che però l’aveva respinto, svegliando Prince: nella lotta a tre che è seguita, dall’arma di Miko è partito lo sparo che, al buio, ha ucciso Prince; Miko è fuggito subito, senza sapere chi avesse colpito. Il capitano ed il medico di bordo erano i soli a conoscere la vera identità del morto ma, sentita Anita, hanno deciso lo scambio di persone, per scoprire i piani del marziano: grazie alla complicità del parrucchiere di bordo (per i ritocchi estetici: nell’insieme Prince aveva una figura femminile) la trasformazione è stata possibile.
Nel frattempo si è creata anche un’altra coppia: quella formata da Dean e Venza, comprimari che però avranno la loro utilità.
Su ispirazione di Anita, Haljan ha dunque fatto schiantare la Planetara e si è rifugiato nell’accampamento di Grantline: ma l’attacco tarda ad arrivare. Gli ammutinati superstiti (in sostanza Miko, Moa e pochi altri) attendono infatti i rinforzi da Marte, che giungono una settimana più tardi con un’altra astronave: una quarantina di pirati contro i nostri e la quindicina di minatori di Grantline. Nella battaglia che segue i buoni hanno la meglio, non potrebbe essere diversamente: ma Haljan e Anita rischiano di essere uccisi mentre cercano di introdursi nel vascello pirata. Si trovano infatti chiusi nella camera di compensazione della nave assieme a Miko e Moa quando la storia d’amore tocca il suo apice: occorre infatti sapere che non solo Miko è stracotto di Anita ma anche Moa è innamoratissima di Haljan.
Chiusi in gabbia, i due uomini lottano ferocemente: in premio non c’è solo la vita ma anche Anita. Finalmente Haljan riesce a piantare un coltello nella gola di Miko e lo uccide: subito Moa afferra la lama e, data appena un’occhiata ai due terrestri abbracciati, se la pianta nel petto perché «era inutile vivere…senza il tuo amore…ma voglio che tu capisca…una marziana sa morire sorridendo». In sostanza, con quell’occhiata Moa – che, parafrasando un suo virgolettato di molti capitoli prima, discende dai creatori delle fiamme di Marte ma non è riuscita ad accendere un uomo – ha visto l’amore vero dei due e ha capito di non poter concorrere con Anita, così preferisce darsi la morte: è il trionfo della storia di baci, che qui tradisce l’intervento pesante della mano dell’autore.
Risolto quindi il vero problema della storia, anche la battaglia viene vinta poco dopo: a questo punto si tratta solo di attendere l’arrivo di una nave di rinforzo per caricare il radiactum e tornare sulla terra.

Astronavi di vetro e acciaio
Le descrizioni delle astronavi, in particolare della Planetara, visto che su di essa sono ambientati i due terzi della storia, sono numerose e dettagliatissime ma anche piuttosto confusionarie, difficili da tradurre in immagini concrete: tuttavia con un po’ di buona volontà – e soprattutto l’ausilio della copertina del numero di marzo 1930 di Astounding e di un’illustrazione interna – si riesce a farsi un’idea della forma e dell’aspetto generali del vascello, che trasuda l’ingenuità ma anche tutto il buon gusto tipici degli anni Trenta.
Tanto per cominciare, la Planetara – una nave di linea – non è né un razzo né un missile ma dà proprio l’idea di essere una nave spaziale: ha lo scafo a sigaro, con un’ampiezza massima di dodici metri e una lunghezza di ottantacinque. Al centro e al di sopra dello scafo è posta una sovrastruttura riservata ai passeggeri, lunga una trentina di metri, con cabine a sufficienza per una quarantina di passeggeri e sei saloni, non troppo grandi ma lussuosi: questa sovrastruttura è cinta da un ponte stretto puntellato di grandi oblò, che corre attorno all’intero perimetro della nave.
A prua, una cupola di glassite contiene l’osservatorio della torretta di guardia anteriore, le cabine degli ufficiali, le sale di navigazione ed altri locali di servizio; un’altra cupola, a poppa, contiene invece la torre di guardia posteriore e una serie di centrali energetiche.
Al di sopra della sovrastruttura centrale sorge una terza cupola di vetro, al cui interno si trova una confusione di ponti, scale e gallerie che culminano in un’altra torretta: al pari della coffa di un veliero, da qui si può dominare tutto o quasi quello che avviene nei ponti inferiori. Ed infatti la torre centrale ha un’importanza strategica, oltre che narrativa, nell’economia del romanzo. Un po’ più sotto si trova anche la sala radio, che sta aggrappata al ponte metallico «come un nido d’uccello».
Lontano dalla vista, nascoste nello scafo principale, si trovano invece le stive di carico per le merci, le sale per il controllo della gravità, l’impianto per il rinnovamento dell’aria, i meccanismi per il riscaldamento, la pressione e la ventilazione, le cucine, gli scompartimenti degli inservienti e gli alloggi dell’equipaggio, sedici uomini in tutto.
Tutto elegante e funzionale, come ci si può aspettare da un prodotto della tecnica di quasi un secolo fa.

Il seguito: Wandl l’invasore
Per l’uscita del seguito dei Pirati occorre però attendere altri due anni, fino a quando Astounding non pubblica «Wandl l’invasore» (Wandl the Invader) sempre in quattro puntate, dal febbraio al maggio 1932: ma mentre il romanzo originale almeno si salvava per l’originalità questa nuova avventura è un disastro totale.
Tanto per liberare il campo dagli equivoci, Wandl non è un personaggio ma un pianeta: un vero pianeta, per quanto piccolo – appena un quinto della luna – entrato risolutamente nel sistema solare e diretto verso i tre pianeti abitati: come si intuisce dal titolo, non ha intenzioni pacifiche.
È passato appena un mese dai fatti narrati nel precedente romanzo, che qui si apprende essere avvenuti nel maggio 2070: adesso siamo quindi nel giugno dello stesso anno, con i piedi ben piantati al suolo nella Grande New York. I quattro protagonisti già noti – Haljan e Dean con le fidanzate Anita e Venza – vengono convocati d’urgenza dal colonnello Halsey del Comando Divisionale Investigativo per indagare sui traffici di altri due marziani equivoci che stanno operando nella capitale mondiale: a dire il vero ad essere arruolate sarebbero le due ragazze ma dato che i fidanzati rifiutano di lasciarle agire da sole perché il rischio è troppo alto, vengono coinvolti pure loro nella faccenda, con la sola qualifica di essere stati i protagonisti della precedente storia.
I due indagati sono Set Molo e Setta Meka, sempre fratello e sorella, dal che si ricavano almeno due informazioni: tutti i nomi marziani iniziano per emme e, evidentemente, tutti i marziani si muovono sempre assieme un parente stretto.
Presto si scoprirà che i due sospetti sono agenti del pianeta vagabondo: o meglio, non è ancora certo che si tratti di un pianeta, perché il corpo celeste ha messo in funzione dei sistemi di occultamento che ne rendono difficoltosa se non impossibile l’osservazione anche con i telescopi più potenti, ma da diversi indizi, come la velocità variabile e i cambi di rotta repentini, gli astrofisici deducono trattarsi di un corpo celeste probabilmente artificiale e sicuramente pilotato. Molto più avanti verrà rivelato che questo planetoide, Wandl appunto, è entrato nel sistema solare per agganciare la terra, Marte e Venere, trainarli nel suo sistema di origine e lì ripopolarli.
La sera stessa in cui i nostri iniziano le indagini su Molo e Meka si intravedono pure due degli alieni che popolano questo pianeta: esseri non enormi (possono essere facilmente occultati in una cappelliera) che sono tutto cervello, da cui si dipartono due gambine minuscole e altrettanti braccini atrofizzati; i membri di questa specie sono chiamati «i padroni» (le sottigliezze non erano il forte di Cummings) dall’altra razza di alieni, che invece vive per servirli: alti tre metri, umanoidi di forma ma insettoidi d’aspetto e di consistenza, forniti di numerose braccia, tentacoli e chele per manipolare gli oggetti, sono gli operai dei cervelloni.

Mai mettersi contro i terrestri
La storia prende il volo rapidamente: quella notte l’attività di sorveglianza fallisce miseramente, le ragazze vengono rapite da Molo, proprio mentre Haljan deve prepararsi ad assumere il comando della Cometara, un’astronave commerciale convertita in tutta fretta in nave da guerra ed attrezzata con diverse armi sperimentali ideate da Grantline (l’esploratore, ora inventore), per intercettare Wandl. Le cose però si mettono ancora peggio quando Molo attiva un sottile raggio di luce che dai livelli sotterranei della città viene proiettato nello spazio, disintegrando tutta la materia che incontra, incluso il tetto che copre i grattacieli della Grande New York: anche da Marte e da Venere partono raggi identici, più o meno nello stesso momento. Il loro scopo si apprenderà più avanti: intercettati da una stazione di controllo su Wandl, servono come ganci o leve per rallentare la rotazione dei pianeti e facilitare così l’opera di furto dei tre corpi, che in seguito dovranno essere agganciati e trainati da Wandl stesso. Haljan, come da copione, arriva appena un momento troppo tardi: Molo è appena scomparso, portando con sé le ragazze e pure Dean, che le aveva pedinate tutta la notte.
Le sfortune di Haljan non sono finite però, perché l’indomani la Cometara viene distrutta dalle armi dei wandliani: dischi rotanti che letteralmente affettano lo scafo. Solo Haljan si salva e solo per essere catturato dai wandliani, che rapidamente lo riuniscono ai tre assenti (Dean, Anita e Venza), già affidati alle cure dei due marziani. Poco dopo Haljan ed i suoi riescono a liberarsi: segue così un’avventura per il pianetino, che li porterà ad individuare e distruggere la suddetta stazione di controllo. Poi, catturato Molo, i nostri cercheranno di fuggire con la Scia Stellare, la nave di questi, ma i pirati del marziano (perché Molo è un pirata noto come «il terrore delle vie stellari») li catturano con facilità.
La storia si conclude con una grande battaglia spaziale: Haljan ed i suoi sono sulla nave di Molo in coda allo schieramento alieno, mentre la flotta alleata dei tre pianeti è guidata da Grantline, che si è salvato dal disastro della Cometara assieme ad altri. I wandliani sono più numerosi ma gli alleati hanno armi più potenti: dopo giorni di combattimento i wandliani sembrano avere la peggio ma riescono ad attirare i resti della flotta nemica in una trappola e solo l’intervento di Haljan salva la situazione. Durante la battaglia infatti gli alieni erano sbarcati sulla luna ed avevano lavorato alacremente attorno ad un proiettore di gravità simile a quelli già attivati sui tre pianeti: così, terminata la costruzione, le navi superstiti convergono verso quel punto, lasciandosi inseguire dalle navi di Grantline, che ora sono più numerose. La flotta alleata infatti non si rende conto della trappola finché non ci finisce dentro: a quel punto le navi, catturate dal raggio, vengono attirate verso la superficie della luna, dove finiranno per schiantarsi. Ma all’ultimo momento i nostri prendono il controllo della Scia Stellare e ne usano gli armamenti per distruggere il proiettore: così, improvvisamente libere dall’attrazione del raggio, le navi alleate entrano in azione e finiscono i vascelli nemici, che erano impreparati.
La battaglia è vinta, la terra e gli altri due pianeti salvi: per effetto del raggio di luce, che adesso sta svanendo, la rotazione del nostro pianeta però si è rallentata e la durata dei giorni allungata (di circa un terzo), tanto che ora ne servono poco meno di 259 per fare un anno.
Wandl, che con la distruzione della centrale di controllo ha perso anche la capacità di muoversi nello spazio, viene lasciato a se stesso e, catturato dall’attrazione del sole, mesi dopo viene distrutto nell’impatto con la nostra stella.

Un’osservazione finale
Nonostante il commento un po’ troppo severo che emerge dall’articolo, nell’insieme «I pirati dello spazio» e in misura minore «Wandl l’invasore» sono due libri discreti, per certi versi pure gradevoli: certo, meglio il primo del secondo ma anche quest’ultimo non è proprio da buttare. A costo di ripetermi, entrambi offrono infatti uno spaccato della fantascienza delle origini, più semplice, spontanea e spensierata: addirittura, questi racconti sono reliquie di un’epoca precedente alla cosiddetta «età dell’oro» della fantascienza che, cominciata verso la fine degli anni Trenta, ha cambiato completamente il genere e non per il meglio. Con l’età d’oro infatti la fantascienza ha dato inizio a quella trasformazione che oggi l’ha portata a definirsi «speculative fiction», un’etichetta artificiale che tradisce una certa spocchia.
Tornando ai due romanzi, com’era tipico delle storie dell’epoca i personaggi sono piatti, la trama lineare e non c’è traccia di crescita o introspezione: ma è un continuo succedersi di scene d’azione e di trovate persino geniali, condite dal più schietto senso del meraviglioso e da una fiducia tutta positivistica nel futuro di cui ormai si sono perse le tracce. C’è di che riempire ben più di un fine settimana di maltempo con la lettura di questi libri, che in definitiva mantengono tutto ciò che promettono: pura evasione.

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