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Mark S. Geston – Fuori dalla bocca del drago

Non è facile recensire un libro come «Fuori dalla bocca del drago» di Mark S. Geston (Out of the Mouth of the Dragon, 1969), dal momento che, pur presentandosi con una struttura simile ad un romanzo, non vuole tanto raccontare una storia quanto scioccare il lettore col suo nichilismo spinto: in altre parole, con l’accettazione rassegnata della fine del mondo, letterale, provocata sì dall’uomo con le sue incessanti guerre e catastrofi ma desiderata anche dal Creato stesso, che qui appare stanco, esausto, privo della forza e della volontà di sostenere ancora la vita.

Un seguito inferiore al capostipite
Pubblicato nel 1969, due anni dopo «I signori della nave delle stelle» di cui è lo scialbo seguito, «Fuori dalla bocca del drago» mantiene la stessa ambientazione del precedente episodio ma cambia completamente la struttura: non è più una storia secolare i cui personaggi sono attori secondari di un progetto ben definito, che è anche la vera star, ma un racconto con un unico protagonista, Amon VanRoark, le cui vicende abbracciano l’ultima decina d’anni di esistenza del mondo.
Tuttavia, anche se l’ambientazione è la stessa, la terra in cui si muove VanRoark è quasi irriconoscibile: è passato infatti molto tempo, alcuni secoli almeno, dagli eventi della «Nave delle stelle», il cui epilogo già pareva definitivo. In realtà viene quasi dichiarato che si era trattato solo di un «falso Armageddon», uno dei tanti che da allora – e forse anche da prima – continuano a ripetersi negli ultimi giorni dell’umanità: gli uomini, già di loro portati alla follia, seguitano a radunarsi ai «Prati» (che non si sa nemmeno dove siano: da qualche parte a ovest) per combattere battaglie senza scopo, solo quello di uccidersi a vicenda, annientarsi l’un l’altro e cercare così di dare nella morte significato ad una vita senza senso, una sorta di catarsi nella convinzione di aver combattuto per il Bene nella lotta contro il Male; ma non è nemmeno chiaro chi stia dalla parte del Bene e chi dalla parte del Male, perché tutti credono di essere tra i buoni.
Al lettore queste battaglie non sembrano altro che suicidi collettivi di menti malate, che infatti sentono la chiamata irresistibile all’olocausto solo dopo aver udito la voce di un profeta itinerante, una sorta di richiamo ai Prati.

Un abbozzo di trama
Sullo sfondo di un mondo in disfacimento, costellato dei residuati di ere tecnologiche avanzatissime lasciati ad arrugginire per paura di ciò che sono stati e rappresentano, una città delle Repubbliche Marinare che non viene mai nominata investe ogni risorsa nella costruzione di un’immensa cattedrale: il cantiere dura un secolo, durante il quale non solo quei relitti marciscono ma il porto stesso, simbolo del commercio e dello scambio di uomini ed idee, viene anche così trascurato da diventare un acquitrino.
È qui che vive il protagonista, Amon VanRoark, figlio diciannovenne di una famiglia abbastanza abbiente della città: costui, attratto dal passato e dal mare, passa le giornate ad osservare le rovine delle antiche glorie, come il porto, gli argini del fiume, i cantieri navali, le fonderie, e a sognare i giorni in cui l’umanità costruiva quelle grandi opere di cui oggi può ammirare solo le rovine.
Un giorno però viene folgorato dalla predicazione di un profeta errante, Tsimonias, che giunge in città con una nave tutta arrugginita: Amon non ricorda una sola parola di ciò che quegli dice ma le sue parole hanno un effetto dirompente sulla mente del giovane, animato all’improvviso da un fuoco interiore, quella stessa «fede messianica e divoratrice» che spinge gli uomini a lasciare tutto per raggiungere i Prati in cerca della morte. Risuona così ancora quella frenesia da «cupio dissolvi» che si era impadronita di tutti i combattenti nel finale del libro precedente.
Due settimane più tardi il richiamo diventa irresistibile: Amon parte per i Prati senza nemmeno salutare la famiglia.

Un mondo già morto
Il viaggio, prima a piedi e poi in nave, è l’occasione per mostrare alcune scene del mondo in disfacimento, come la Fascia Verde, terre un tempo fertilissime trasformate dalle guerre e dalle catastrofi in un deserto «perfino più arido della terra che lo circondava»; le rovine della città-fortezza di Charhampton, segnate da ogni tipo di arma, incluse le «impronte-ombra della gente sorpresa dalla bomba un tempo esplosa nella gola»; la ricca Enador, che a distanza di pochi mesi passerà dallo splendore all’abbandono totale; la Baia degli Alberi Neri, dove di un’antica e sconfinata foresta restano solo i ceppi anneriti; e poi le isole Dresau, protagoniste del finale dei «Signori della nave delle stelle», che «erano morte subito dopo aver mandato la loro ultima flotta a combattere in uno dei falsi Armageddon»; ed i resti delle città confinanti di Ihetah-Incalam e Cynibal, annientatesi a vicenda: «L’unica differenza era che i morti di Ihetah stavano ancora vagando lì attorno, mentre quelli di Cynibal giacevano, in pace, sotto terra. I primi avevano impiegato esplosivi convenzionali (…) gli altri avevano disseminato gas e peste sintetica, dissepolti dalle apparentemente inesauribili Armerie e trasportati via terra, a costi spaventosi».
Lungo il percorso il protagonista si fa anche alcuni amici, pure diretti ai Prati, come Tapp e Smythe: il primo, un ubriacone scampato suo malgrado ad un precedente Armageddon ma contaminato sul campo di battaglia da una tale quantità di radiazioni che sta morendo lentamente, ricoperto di piaghe purulente; il secondo, un bibliotecario fuggiasco della Biblioteca Nera dell’Abbazia di Krysale prima e di Iram poi, «il che significava che una buona metà delle nazioni del mondo avevano leggi le quali avrebbero consentito a chiunque di assassinarlo legalmente». La loro funzione però è solo trasmettere informazioni, spesso vaghe ed imprecise, sullo stato del mondo futuro e sul mistero che circonda i Prati: ed infatti, esaurito il loro scopo, sono anche tra i primi a cadere quando la situazione si fa calda.

L’ultima battaglia della terra
Finalmente, dopo mesi di viaggio, la nave di Amon e compagni raggiunge il punto in cui milioni di altri uomini e migliaia di altre navi – anche a vapore o nafta – si stanno ammassando: è il Burn («ustione», in inglese), ma probabilmente sono anche i Prati; e verosimilmente si tratta pure degli stessi Campi della «Nave delle stelle», che infatti erano stati spazzati dalle fiammate dell’astronave che tentava di prendere il volo. Qui guerrieri medievali si mescolano ad eserciti di tipo moderno e persino ad alcune armi futuristiche malandate, come superaerei e treni su gomma, che sono ciò che resta delle Nazioni dell’Orlo, i discendenti degli antichi colonizzatori spaziali. Nel lontano passato infatti l’uomo ha raggiunto le stelle: poi, dopo averle colonizzate, è stato raggiunto a sua volta dai profeti come Tsimonias, che col loro richiamo all’autodistruzione hanno spinto gli uomini delle stelle a tornare sulla terra per cercarvi la morte. I loro discendenti, ormai miseri come il resto dell’umanità, hanno persino dimenticato come costruire le macchine meravigliose che i loro antenati avevano portato con sé dallo spazio, astronavi incluse.
Dopo settimane di nervosa attesa, infine la follia si risveglia tutta d’un tratto: una notte i guerrieri con spada e scudo attaccano improvvisamente quelli armati con le macchine e le armi più moderne, accusandoli di profanare la purezza della loro missione con le loro navi e i loro aerei, «o forse hanno addirittura pensato che noi fossimo l’esercito del Male, e potevano risparmiarsi la passeggiata fino ai Prati, attaccandoci sul posto», spiega l’unico superstite.
Nella confusione della battaglia totale che segue, un tutti contro tutti votato all’annientamento, Amon perde il braccio e l’occhio destri: raccolto da un gruppo di scampati delle Nazioni dell’Orlo, viene curato e rimesso a nuovo con un braccio ed un occhio meccanici. Amon non conoscerà mai tutti i suoi salvatori, perché questi muoiono prima che possa riprendersi: solo uno, un tale Cavandish, sopravvive, anche lui riaggiustato con una protesi che ne sostituisce la mandibola e la gola perse in battaglia. Cavandish si prende cura del protagonista finché Amon non si ristabilisce: poi lo tiene con sé a bordo del traino terrestre che ha recuperato dai Prati, un enorme treno su ruote di gomma.

Qui cominciano i problemi
Inizia così la parte più indigesta e persino morbosa del libro, nella quale non sempre si riesce a distinguere ciò che è reale da ciò che è illusione o metafora: è la discesa nella follia di Amon, che rimpiange di non essere morto ai Prati (sa di esservi andato proprio per lasciarci la pelle) e prende subito in odio le sue protesi; di riflesso, scarica questo odio anche su Cavandish, perché non lo ha lasciato a morire sul campo.
Abbandonato infine il suo salvatore, Amon inizia un vagabondaggio di sette anni nella terra deserta, durante il quale impazzisce definitivamente: un giorno finalmente ritorna alla sua città, vuota e abbandonata; persino la cattedrale, orgoglio delle dissolte Repubbliche, è in rovina, convertita in hangar per aerei in disuso, supremo spregio a quelle idee che avevano portato all’edificazione della cattedrale.
Ripreso il vagabondaggio, anni dopo Amon si imbatte nuovamente nel traino: all’esterno, seduto su una poltroncina da campo, il corpo di Cavandish è ormai ridotto ad uno scheletro ma la sua protesi vocale continua ad emettere suoni, a volte persino frasi che paiono avere senso. Amon, sulla cui pazzia ormai non ci sono più dubbi, si mette alla guida del traino e porta lo scheletro con sé, per avere un compagno di viaggio con cui parlare: deciso a trovare i Prati, ritorna così al Burn, dove organizza un’«ultima cena» con una dozzina di invitati, tutti cadaveri presi tra i milioni che costellano il campo di battaglia.
Poi parte col traino, diretto a nord ovest, dove raggiunge finalmente il mare, che per tutto il libro era stato la sua ossessione, con la sua vita incontaminata: pianta una baionetta sulla battigia per vedere l’acqua che si taglia in due e poi si dispone ad attendere la fine della creazione, alla quale non deve mancare poi molto.

Un libro difficile
Ho iniziato «Fuori dalla bocca del drago» aspettandomi qualcosa di simile ai «Signori della nave delle stelle», che non mi era dispiaciuto: era infatti un’ottima storia con un’ambientazione solida e interessante ed un finale aperto, che trovo sempre accattivante. Ed invece ho dovuto fare i conti con tutt’altro: in questo seguito cambia tutto, non solo l’intreccio (da una storia senza veri protagonisti si passa ad un unico protagonista centrale) ma anche il genere (quella che era la cronaca di eventi spalmati su oltre un secolo diventa una sorta di racconto di viaggio compresso in una decina di anni) e soprattutto il tono, che da semplice ruminazione pessimistica sull’intima natura umana si trasforma in nichilismo puro e indigesto.
Non nascondo che arrivare in fondo a questo libro richiede forza di volontà: io ci sono riuscito solo perché volevo proseguire nella serie di Geston e scrivere questo commento, anche se non immaginavo che sarebbe stato negativo. In piena onestà infatti non è pensabile consigliare ad alcuno di leggere «Fuori dalla bocca del drago», perché non è certo un’opera leggera ed anzi diventa ancora più pesante nella seconda parte, quando inizia la discesa del protagonista nella follia e nella morbosità macabra: a renderne ancora più gravosa la lettura, per tutto il libro si rimane ad aspettare una rivelazione che sembra sempre essere lì per arrivare ma non arriva mai; e quando finalmente si giunge alla fine si resta delusi da un finale confuso e astratto che non soddisfa nemmeno un frammento delle aspettative. No, è molto meglio fermarsi ai «Signori della nave delle stelle» per conservare una buona opinione dell’autore e dell’ambientazione.
Per restare in argomento, la follia ed in misura minore gli eccessi paiono essere temi ricorrenti nelle storie ambientate in una qualche terra morente, probabilmente perché riescono a rievocare con facilità quella frenesia da movimenti millenaristici che è anche l’ispirazione del genere: in Vance ad esempio – la cui ambientazione è più leggera e giocosa, quasi fiabesca – la follia è mascherata da eccentricità si serve dell’egoismo più gretto per giustificare eccessi di ogni tipo; in Smith invece – che fa di Zothique un mondo cupo, barocco, malato e malvagio – la follia è meno evidente ma solo perché viene dissimulata dall’intemperanza travolgente dei sensi e da una certa indulgenza verso il macabro.
In «Fuori della bocca del drago» invece è la follia la vera la forza trainante della storia mentre gli eccessi sono poco presenti e non hanno altra funzione che mostrare l’influenza crescente delle credenze millenaristiche e apocalittiche. Nei paragrafi precedenti ho già accennato al tema collegato del «cupio dissolvi», quel desiderio di autodistruzione che prende tutti i combattenti alla fine della «Nave delle stelle» e che ritorna già all’inizio di questo secondo libro, ora però diffuso all’intera creazione: persino gli insetti ne sono colpiti, come quello incredibilmente bello e variopinto che viene mostrato tutto intento a divorarsi le interiora. Solo il mare pare esserne immune, dato che viene descritto sempre pieno di vita e indifferente a ciò che accade sulla terraferma: è proprio per questo che nella scena finale il protagonista, l’ultimo uomo sulla terra, affonda per spregio una baionetta nell’acqua, un tentativo forse di portare simbolicamente anche il mare con sé nella dissoluzione finale.
L’intento dell’autore in quest’opera è chiaramente mostrare la caducità se non addirittura la vacuità della vita e delle faccende umane: la follia che accompagna gli ultimi ansiti del mondo futuro infatti non può che essere un richiamo quasi esplicito alle cronache dell’epoca (il ventiduenne Geston scriveva in pieno Vietnam) e perciò la decadenza, l’abbandono e lo squallore del mondo futuro non sono altro che un’allegoria del nostro.
Ma anche questa lettura attualizzante non basta a salvare un libro che rimane indigesto.

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