Quando mi viene chiesto di recensire di un libro, persino se è di recente pubblicazione e quindi stride con la vocazione di questo blog, non sono capace di negarmi: finisco sempre per acconsentire, perché lo considero come un servizio per sostenere ed incoraggiare gli scrittori più coraggiosi. Così quando il mese scorso sono stato contattato da Khrystyna Gryshko, giovane autrice di origine ucraina, non ho saputo dirle di no: ho accettato di recensire «Benvenuti a Neverland», di cui ho subito ricevuto una copia omaggio in pdf.
E, pur a malincuore perché la Gryshko mi ha dato l’impressione di essere una persona positiva e dotata di spirito di iniziativa, devo dire che il libro non mi ha impressionato: o meglio, l’ha fatto, sì, ma in senso tutt’altro che positivo.
Un manicomio senza matti
Pubblicato nel dicembre 2017 dalla Arduino Sacco, «Benvenuti a Neverland» parla degli ospiti di un manicomio e della laureanda in psicologia che trascorre alcuni mesi con loro per preparare la tesi, salvo chiudersi con una svolta finale inattesa ma creativa e credibile: il libro stesso è strutturato in una serie di episodi isolati che hanno quasi sempre la studentessa per protagonista. Come suggeriscono alcuni indizi disseminati qua e là, questo personaggio – Emily Jones – è chiaramente una proiezione dell’autrice, della quale infatti condivide l’età e, comparandone la descrizione con la foto pubblicata nella nota biografica allegata, pure l’aspetto fisico: la Jones appare inoltre animata dal classico entusiasmo giovanile che la porta non solo a scontrarsi più volte con lo stesso direttore della clinica ma, nonostante l’inesperienza, persino a far guarire due pazienti con i suoi metodi eterodossi.
Fin qui la storia, della quale non posso dire di più, anche perché si fa fatica a seguirne l’intreccio, che è un campo minato di errori e refusi: al di là della semplice impaginazione infatti non si scorge nemmeno l’ombra di un lavoro redazionale anche minimo di correzione, sistemazione e rilettura del testo. Il libro sa di bozza, di una prima stesura che deve essere rivista integralmente: non mi riferisco solo all’ortografia e alla grammatica, sulle quali tornerò nel prossimo paragrafo, ma anche alla caratterizzazione dei personaggi, che sono tutti egualmente piatti, difficili da distinguere l’uno dall’altro.
Quando ancora studiavo (non psicologia ma sempre nel campo umanistico) mi era stato spiegato che i matti vivono sì in un mondo tutto loro – e su questo siamo d’accordo – ma in un mondo che è anche molto più vivo e colorato del nostro o di come noi l’avvertiamo: di questo spettro estremo dei colori e di questa «multidimensionalità» della loro realtà non c’è però traccia nell’opera. I pazienti della clinica Neverland sono macchiette con le loro ossessioni ma, tolte alcune scenette in cui la loro patologia viene a galla, non sono poi tanto diversi dal vicino di casa eccentrico e schivo ma perfettamente innocuo al quale però tutti gli altri condomini attribuiscono le cose più turpi ed appioppano le battute ed i nomignoli più creativi.
Questi invece sono matti solo per definizione, quando lo sono: certo, il finale rigira la situazione e nelle intenzioni dovrebbe anche spiegare tutto quanto ma proprio per questo ribaltamento delle prospettive mi sarei aspettato di trovare luci psichedeliche e strobosfere a non finire, non una cronaca scialba e congruente del tipo «Tizio dice, Caio risponde, Sempronio fa» che invece costituisce lo scheletro di ogni episodio.
Un continuo sforzo mentale
È possibile però che un lavoro di ulteriore caratterizzazione sia stato tentato con alcuni personaggi – come Sasha la guerriera, Peter il mistico e Mark l’artista – ma se è così ogni sforzo creativo è stato vanificato dalla cattiva redazione dell’opera, che appiattisce la narrazione e distrae, perché richiede al lettore un incessante lavorio di correzione mentale del testo: così da un lato si perde ogni accenno di «bello scrivere» che dovesse emergere, subito soffocato dagli errori, dall’altro l’attenzione stessa finisce per spostarsi dalla comprensione della trama alla rielaborazione di ogni periodo; e dopo aver ripetuto il medesimo schema lettura-comprensione-correzione-rilettura quasi per ogni frase si finisce per stufarsi presto della storia.
A poco vale la nota cautelativa iniziale, ripetuta ben due volte a distanza di poche pagine, secondo la quale gli errori sarebbero «una scelta volontaria dell’autore» con «lo scopo di rappresentare in maniera veritiera il livello culturale della voce narrante dell’intera vicenda di Neverland», che sa di scusa: perché se è vero che un linguaggio più familiare e meno attento alla sintassi può essere una scelta stilistica, è ancora più vero che alcuni orrori che ricorrono frequentemente non sono proprio accettabili in un libro.
Un conto infatti è usare un registro colloquiale, più vicino al parlato che allo scritto, anacoluti e strafalcioni inclusi, un altro sbagliare tempi e modi verbali («non vide che quello in realtà stesse fumando una sigaretta», «se una storia del genere mi sarebbe stata raccontata», «nessuno sa come se le abbia procurate»), usare una lingua di fantasia («vi ci ho lavorato come infermiere», «vi ci andai», «vi ci fu un grande tonfo», «si diresse da signor Smith», «Signor Smith ha promesso») o addirittura scrivere periodi privi di significato («la strategia di Emily era quella di passeggiare nel giardino del manicomio per lasciare che si compi lei: la scelta») o che esprimono un concetto diverso da quello desiderato («ci vediamo in tribunale, Malcolm. Farò di tutto affinché tu possa marcirci dentro a vita»: va bene la lentezza della giustizia ma forse qui intende il carcere?).
Il correttore fa miracoli!
L’elenco degli errori sarebbe lunghissimo ma non è obiettivo di questa recensione presentarne il campionario completo, tanto più che la Grishko non è di madrelingua ed anzi, sgrammaticature a parte, dimostra una discreta padronanza dell’italiano per l’uso quotidiano: tuttavia gli errori ci sono e, se possono essere perdonati nel parlato (o addirittura passare inosservati), la lingua scritta è molto meno indulgente.
Tra l’altro – ed è questo ciò che disturba di più – bastava passare già solo il correttore ortografico per sistemare una buona metà delle storpiature (come «la spasa», «il paino», «tenersi ad osso», addirittura «Neverlad», senza la enne, che ritorna ben quattro volte): e per aggiustare le rimanenti sarebbe stata sufficiente una semplice scorsa da parte di un conoscente madrelingua o, meglio ancora, dell’editore, che avrebbe immediatamente individuato almeno gli errori più evidenti. Certo, sarebbe rimasta comunque la necessità di caratterizzare meglio i personaggi ma almeno il problema principale e subito evidente di questo libro sarebbe stato sistemato in buona parte.
Invece, pubblicato così com’è, il libro sa di sciatteria, sia da parte dell’autrice – che ha trascurato un’operazione basilare per chi scrive – sia della casa editrice, il cui compito principale non sarebbe tanto vendere un libro redatto malamente quanto consigliare l’autore ed aiutarlo a risistemare il testo, per renderlo più presentabile.
Plaudo all’entusiasmo creativo della giovane Khrystyna Gryshko, che ha già scritto tre libri e sta per pubblicarne altri due, ma almeno per le prossime opere non posso fare a meno di suggerirle di dedicare maggiore attenzione sia alla cura della lingua sia alla caratterizzazione dei contenuti ed in particolare dei personaggi.
Il risultato finale ne gioverebbe.