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Ray Cummings – La ragazza nell’atomo d’oro

La teoria dei microcosmi – ossia mondi così piccoli da essere contenuti negli atomi – ha conosciuto particolare fortuna nei racconti avventurosi degli anni Venti e Trenta, per scomparire improvvisamente già prima degli anni Quaranta: incoraggiato dai progressi della scienza reale, che stava scoprendo elettroni e protoni, e dai progressi tecnici nel campo dei microscopi, questo sottogenere della fantascienza delle origini – in sostanza una variante del viaggio tra le dimensioni – ha avuto inizio con «La ragazza nell’atomo d’oro» (The Girl in the Golden Atom, 1919), opera d’esordio di Ray Cummings, un autore di cui già si è parlato (qui e qui).

Pianeti grandi come atomi
Racconto breve pubblicato da All-Story Weekly nel marzo 1919, «The Girl in the Golden Atom» ha fatto rapida presa sui lettori dell’epoca, avidi di avventure sensazionali, tanto da spingere Cummings a scriverne subito un lungo seguito, «The People of the Golden Atom», pubblicato in sei puntate sullo stesso settimanale nel gennaio e febbraio 1920: riuniti nel 1940 nel classico «fixup», da allora i due racconti hanno sempre viaggiato assieme sotto il titolo della storia originale. A differenza del solito però qui la fusione non è riuscita perfettamente perché al lettore non sfugge il punto di fusione tra i due racconti, rabberciato alla meglio nelle ultime pagine dell’ottavo capitolo.
Il genere dei microcosmi o universi infiniti, una variante a cavallo tra fantascienza e fantasy del più noto viaggio tra le dimensioni, prende le mosse da alcune banali osservazioni: dal momento che l’universo pare essere sconfinato; che noi stessi ne ignoriamo i limiti; che il movimento dei pianeti attorno alle stelle ricorda quello degli elettroni attorno al nucleo degli atomi; in sostanza, dal momento che queste ed altre considerazioni – incluso, non ultimo, il senso del meraviglioso – sembrano reggersi in piedi in qualche modo gli autori dell’epoca hanno dedotto che potremmo abitare noi stessi un atomo di un qualcosa di infinitamente più grande di noi. Allo stesso modo quindi nulla ci impedisce di pensare che anche all’interno degli oggetti di uso quotidiano esista una varietà di microcosmi: atomi che in realtà sono pianeti o, come nel caso di questo racconto, semplicemente mondi infinitamente più piccoli del nostro, abitati da esseri umani microscopici identici a noi proprio come noi abitiamo il nostro mondo.
È un ragionamento tirato per i capelli ma perfettamente plausibile secondo i canoni della vecchia fantascienza, che non si curava tanto della correttezza scientifica (non a caso si parla di «superscienza») quanto piuttosto della capacità di suscitare il senso del meraviglioso: e non si può negare che i cosiddetti «atom worlds» abbiano la capacità di suscitare interesse con la loro miscela di mistero ed avventura.

Si costruisce la scena
I protagonisti di entrambe le storie di Cummings sono cinque amici facoltosi riuniti in una sala di un club: per un capriccio dell’autore per tutto il libro non vengono chiamati per nome ma sono indicati dal loro ruolo sociale, ossia il Chimico (che è il vero protagonista), il Dottore, l’Uomo Molto Giovane, il Grande Uomo d’Affari ed il Banchiere. Tuttavia tutti vengono chiamati per nome almeno una volta nei due racconti: nell’ordine, Rogers, Frank Adams, Jack, Will e George; quest’ultimo e Frank sono gli unici nominati nel racconto originale, gli altri compaiono solo nel seguito.
Il cardine di tutto il racconto è appunto il Chimico, al quale gli amici servono solo come claque: diventano tuttavia più rilevanti nel seguito, in particolare l’Uomo Molto Giovane, al quale è dedicata l’altra storia d’amore (la prima, ovviamente, è un’esclusiva del protagonista).
Anche se buona parte della trama è ambientata nel mondo utopico contenuto nell’anello d’oro del Chimico, si può dire che l’azione non si sposti quasi mai dalla sala del club riservata ai cinque, dal momento che l’anello rimane sempre all’interno della stanza, tranne nelle battute finali: e anche se nei cinque anni che dividono le due storie l’anello viene custodito da un museo, questo periodo trascorre per intero fuori scena.
La premessa è delle più scontate: il Chimico, improvvisamente attratto dai microscopi e dall’infinitamente piccolo, si mette a studiare la fede d’oro della madre; nelle sue osservazioni per caso scova un luogo, come lo sbocco di una caverna, davanti al quale ogni giorno alla stessa ora passa una splendida ragazza, di cui si invaghisce. Deciso a raggiungerla, fa ritorno al suo campo professionale e, sperimentando un po’, inventa la formula di un preparato che riduce le dimensioni di chi lo ingerisce ed anche del suo antidoto, che invece le aumenta: produce quindi un certo numero di pillole dei due composti che si fissa, in due flaconcini, sotto le ascelle, così da mutarne le dimensioni assieme alle proprie.
Riuniti infine gli amici nella sala al club, spiega loro l’antefatto, mostra gli effetti dei preparati su una mosca e poi si spoglia, ingurgita un po’ di compresse miniaturizzanti e si lancia all’avventura nell’anello, pregando gli amici di aspettarlo in quella sala, chiusa a chiave, per un paio di giorni.

La ragazza nell’atomo d’oro
Trascorsa una quarantina d’ore, il Chimico riappare, tutto stracciato e sporco di sangue, tra l’incredulità degli amici, ai quali racconta la sua avventura.
Al termine di una lunga e faticosa discesa nella struttura dell’anello, simile ad una montagna accidentata, durante la quale assume dimensioni via via sempre più piccole, sbuca finalmente nel mondo che voleva raggiungere, illuminato non da un astro come il sole bensì da una luminescenza diffusa tendente all’azzurrognolo che non si spegne mai. Dopo aver vagato per un po’ in un bosco che sembra senza fine, cade a terra per la stanchezza: più tardi viene svegliato da Lylda, la ragazza vista al microscopio, che, presolo per mano, lo conduce dalla sua gente nella città di Arite, la capitale.
Il Chimico ha così modo di farsi un’idea di quel popolo, gli oroidi, di vaghissima ispirazione classicheggiante, e di giudicarli meritevoli di tutta la sua stima: sono un popolo indolente, mite e gentile, vegetariano, che non è attratto dall’avventura né dalla sete della conoscenza ma si accontenta di quello che ha, favorito nella sua apatia da una terra che genera da sola il nutrimento, non conosce bestie feroci ed offre un clima perfetto. Gli appassionati del calcolo possono anche farsi un’idea di quanto sia grande questa terra, perché il Chimico afferma che il mondo all’interno dell’anello è una superficie concava lunga quanto la circonferenza interna dell’anello, pari all’incirca a diecimila chilometri. Quindi, stabilita la circonferenza dell’anello, con un’equazione si potrebbero ricavare le dimensioni dei minuscoli abitanti, che secondo il Chimico hanno un’altezza normale: ma la matematica non è mai stata il mio forte e così lascio ad altri il calcolo, se hanno questo interesse.
Tornando alla storia, recentemente però sono iniziati i guai: gli oroidi si sono dovuti improvvisare guerrieri perché i malvagi maliti, l’altro popolo che abita quella terra sconfinata (il Chimico stima ospiti venti milioni di abitanti in tutto), sta muovendo loro guerra. Ed i risultati per i nuovi amici del Chimico sono stati una batosta dietro l’altra.

Ipocrisia formato gigante
Si arriva così al cuore della storia: nella settimana di soggiorno ad Arite (il tempo nell’anello scorre più rapidamente che all’esterno) il Chimico riesce ad insegnare l’inglese a Lylda, figlia di uno degli uomini più dotti della nazione, e a farla innamorare di sé: impresa non troppo difficile dal momento che, dice, la ragazza «mi considerava una specie di messia, venuto a salvare il suo popolo dalla distruzione che lo minacciava. Lei mi credeva un essere sovrannaturale; e se ci pensate bene, signori, lo ero veramente, in un certo senso». Modesto, l’amico.
Lylda dunque fa da interprete col re di quel popolo, che in realtà è un presidente, si affretta a spiegare il Chimico, scelto dal popolo per un periodo che per noi corrisponderebbe a vent’anni (a spanne, quindi, otto dei loro). Appresa così la situazione, il nostro decide di dare una mano agli oroidi: inghiotte alcune pillole per aumentare le sue dimensioni, diventa un gigante di centoventi metri, raggiunge in poco tempo un’altra città oroide assediata dai maliti e fa scempio degli attaccanti, schiacciandoli come parassiti per ore.
È una strage ma siccome ritiene di averla fatta per nobilissimi motivi a spese dei cattivi, il nostro superbo eroe sente di potersi assolvere da qualsiasi colpa o rimorso: tuttavia, esortato dagli amici, rifiuta di usare lo stesso trattamento coi tedeschi in Francia (la storia, pubblicata a guerra finita, è ambientata nel settembre 1918) perché la sua fregola di tornare indietro a prendere Lylda è più importante di qualche migliaio di morti al fronte, «una settimana in più o in meno non farà molta differenza, per quel che riguarda l’esito della guerra (…) se devo scegliere tra la vita di mille uomini che non dipendono da me, e la vita di una donna che invece dipende proprio da me, sceglierò la donna» (che però era sana e salva ad Arite e non stava correndo alcun pericolo). Come se non bastasse, non vuole nemmeno condividere le formule con gli amici perché si occupino loro della faccenda: «Sarei pronto a scommettere la mia vita che ne fareste buon uso: ma non scommetterei la vita di una nazione».
E solo poche righe prima aveva affermato di saper riconoscere l’importanza della salvezza di una nazione o di una causa.

Il ponte tra i due racconti
Finito lo scempio dei maliti, che si mettono buoni, il Chimico decide di tornare da solo nel nostro mondo per rassicurare gli amici, sistemare alcune faccende e poi riprendere la via di Arite, per ricongiungersi con Lylda e portare anche lei nel nostro mondo.
Due giorni dopo nella stessa sala il Chimico è quindi pronto a ripartire: lascia agli amici la consegna di attenderlo per una settimana, allo scadere della quale però il nostro non ricompare; e non si fa più vedere per molto tempo ancora, tant’è che ad un certo punto gli amici perdono la speranza e danno per disperso il Chimico.
Passano cinque anni ed i quattro, convocati dal Dottore, sono nuovamente riuniti nella solita sala del club: prima di partire per la seconda volta infatti Rogers gli aveva consegnato segretamente una busta, con l’ordine di aprirla solo se non fosse tornato entro cinque anni. Fedele alla consegna, il Dottore l’ha aperta alla scadenza indicata e ne ha seguito le istruzioni, accompagnate dalle formule dei due preparati: tra le altre disposizioni, il Chimico si aspetta che gli amici lo seguano nell’anello.
Tutti si dichiarano intenzionati a raggiungere Rogers, tanto più che nessuno ha legami familiari: solo il Banchiere, ultrasessantenne, rimane, perché c’è bisogno di qualcuno che sorvegli la sala durante la loro assenza.
Inizia così «The People of the Golden Atom», che è un tormento da leggere: lento, lungo, poco creativo, una copia (a volte letterale) dei passi migliori dell’originale intervallati con lunghe descrizioni di azioni comuni, irrilevanti ai fini della storia, che stravolge quanto era già stato fissato nell’episodio precedente.

Il popolo dell’atomo d’oro
Una settimana più tardi il Dottore, l’Uomo Molto Giovane (che nonostante gli anni trascorsi è ancora «molto» giovane) ed il Grande Uomo d’Affari scendono dunque nell’anello: prima però interi capitoli sono dedicati alle spiegazioni del Dottore, alla dimostrazione dell’efficacia dei preparati su una lucertola ed un passero, che poi mentre ancora stanno rimpicciolendo vengono posati senza ragione sull’anello, proprio nel punto in cui i protagonisti dovranno poi scendere (il lettore accorto già sa che i nostri incontreranno le due bestiole nel loro cammino e si chiede perché mai l’abbiano fatto), e pure alla lotta con uno scarafaggio divenuto enorme perché aveva ingerito qualche goccia caduta per terra del preparato sciolto in acqua utilizzato nelle precedenti dimostrazioni. Ed intanto la storia si allunga senza dare nulla di concreto.
Finalmente, trascorsa la stessa lunghezza del racconto originale, i tre sbucano nel mondo dell’anello: vagano per un po’ nel bosco quando vengono avvicinati da un ragazzo che conosce una sola frase in inglese, «Il Maestro dà il benvenuto ai suoi amici». E così il Chimico è già divenuto un santone.
La storia di questo seguito è molto ingarbugliata ma in sostanza ruota attorno ad una ribellione che sta covando da tempo, l’equivalente di dodici anni locali, da quando cioè il Chimico si è stabilito ad Arite dopo aver sposato Lylda: gli oroidi hanno smesso di fidarsi l’uno dell’altro e di questo hanno approfittato i capi con la loro intelligenza superiore, che alimentano l’insoddisfazione e l’inquietudine crescente, dando alle masse un obiettivo tangibile, che si intuisce essere il Maestro. E l’arrivo dei suoi amici fa precipitare gli eventi.
Tra i capi, il più pericoloso è un certo Targo, un malita che però è sposato con un’oroide: sei mesi fa ha guidato una rivolta nella città di Orlog, che da allora si comporta come una nazione indipendente. Targo è stato appena catturato e condannato a morte tra il risentimento generale: l’arrivo dei tre amici è quindi la scintilla che fa esplodere la rivolta anche ad Arite perché, additati come complici del Chimico, si sparge la voce che siano venuti per causare disastri. Cosa che in effetti avviene ma tutti i protagonisti sono così pieni di sé che non riescono nemmeno a rendersene conto.

L’utopia socialista
Per comprendere le ragioni della rivolta dei «targisti», i sostenitori di Targo, è utile avere un’idea dell’utopia socialista in cui vivono gli oroidi, sulla quale pesano le idee politiche di Cummings. In uno dei suoi lunghi pistolotti il Chimico spiega che ogni cittadino riceve un eguale appezzamento di terra da lavorare: alla sua morte, la terra torna allo stato, che la riassegna. Non esiste moneta ma c’è una sorta di baratto basato su unità standard di lavoro (calcolate in base al tipo di occupazione svolta, in media cinque ore al giorno): a parole ognuno può coltivare quello che vuole ma, dice sempre il Chimico, in pratica la produzione dei beni è pianificata, per soddisfare la domanda. Sebbene le città si governino da sole per i problemi locali, tutte sono sottoposte al controllo centrale del governo di Arite.
Cummings dedica molto tempo e grande cura ad illustrare l’utopia socialista in cui evidentemente crede: così è facile intuire le ragioni del risentimento che prova per i targisti, dipinti come biechi capitalisti sfruttatori che non comprendono il dono che hanno ricevuto. Targo ed i suoi chiedono però solo una diversa divisione delle terre: «Con il sistema attuale – chiarisce il protagonista – circa un terzo di tutta la terra disponibile è nelle mani del governo. E più della metà di questo terzo resta quasi sempre incolta. I targisti vorrebbero che venisse divisa tra i cittadini. Inoltre, affermano che quasi tutte le organizzazioni cittadine non producono un ricco dividendo come i targisti potrebbero assicurare con la loro gestione. E hanno molte altre rivendicazioni che adesso è inutile specificare».
E, già che c’è, aggiunge pure che i secessionisti non sono sinceri né onesti: i loro capi (con la loro «intelligenza superiore», ricordiamolo) sono infatti in maggioranza maliti o oroidi con sangue malita nelle vene. Se quindi i più intelligenti sono dell’altra razza e guidano la ribellione, ne consegue che, evidentemente, gli oroidi sono dei babbei e per questo si accontentano del loro socialismo: ma il sillogismo dev’essergli sfuggito perché non pare che Cummings avesse questo per la mente mentre scriveva.

Golia schiaccia Davide
A far esplodere la situazione dunque è la saccenteria della famiglia del Chimico: notata la tensione nell’aria, Lylda – che ha un incarico di primissimo piano nel governo centrale – usa le pillole portate dagli amici del marito per ingigantirsi e fare un giro delle principali città oroidi, per invitare gli scontenti a trasferirsi ad Orlog, dove sarà permessa ogni licenza; chi ne lascerà i confini però sarà messo a morte (la morte è il castigo per quasi ogni infrazione in questa terra dell’utopia). Ovviamente le sue alte intenzioni vengono fraintese e servono solo a far scoppiare la rivolta aperta: da qui in poi la storia si riduce ad una serie di scene di pericolo da cui ora questo ora quello si mettono in salvo.
C’è spazio tuttavia per il colpo di fulmine tra l’Uomo Molto Giovane ed Aura (colto il riferimento all’oro?), la sorella di Lylda, che prima si dichiarano eterno amore e poi assieme corrono a liberare Loto, il figlio del Chimico, rapito dai perfidi orloghiani.
Alla fine, sfuggita di mano la situazione, i nostri decidono di fuggire in gruppo: il Chimico con la famiglia, i tre amici con Aura ed i due servitori del Chimico, nove persone in tutto. Anche in questo caso il Maestro ha pronta la giustificazione: «Se restassimo, potremmo soltanto fare del male a questi sconsiderati». Persino quando vengono messi di fronte ai disastri che hanno combinato col loro scarso giudizio i protagonisti sono ancora incapaci di riconoscere le proprie colpe.
La fuga include nuove stragi di rivoltosi, che nonostante la certezza della morte continuano ad attaccare coraggiosamente i fuggiaschi senza lasciarsi intimorire dalle loro dimensioni colossali; una lotta in formato gigante tra l’Uomo Molto Giovane e Targo, che termina con la morte del malita; ed una scena dedicata alla fuga dell’Uomo Molto Giovane dalla famosa lucertola – qui grande come un dinosauro – sulla quale all’inizio del racconto era stata provata l’efficacia dei preparati.
L’atteso epilogo è ambientato alla vigilia di Natale, in una fattoria sotto la neve, con tutta la combriccola allegramente riunita.

Molto meglio gli altri libri
Già durante la lettura di questo articolo dev’essere emerso il giudizio non proprio favorevole del libro, che include solo gli aspetti peggiori della vecchia fantascienza senza nessuno dei suoi punti di forza, a parte un leggero senso del meraviglioso, presto soffocato dall’utopia politica: da questo punto di vista, pur con i loro limiti, gli altri due libri di Cummings recensiti su Libri Pulp, «Il mondo invisibile» e «I pirati dello spazio» (che include anche il seguito, «Wandl l’invasore»), sono assai migliori, probabilmente perché sono stati scritti una decina di anni più tardi.
Preso quindi come volume unico, «La ragazza nell’atomo d’oro» non merita nemmeno una parte dello sforzo necessario per leggerlo tutto: se infatti da un lato il racconto originale del 1919 ha una sua qualche attrattiva per l’originalità della trama, dall’altro l’interminabile seguito si prende troppo sul serio e sostituisce ogni accenno di leggerezza (che già non era il punto forte del precedente) con un senso di gravità e rovina incombente. La superscienza stessa non stupisce più il lettore perché segue ciecamente la formula del primo episodio, senza aggiungere nulla di nuovo, a parte l’utilizzo delle pillole da parte di questo o quel personaggio per fare questa o quella cosa inedita: in definitiva, la storia è di noia e di una lentezza esasperante.
A complicare la situazione intervengono i personaggi, che mancano di autoconsapevolezza e si credono il centro di tutto: un problema comune a molte storie dell’epoca, che normalmente si nota ma disturba poco, perché a parte la loro piattezza i personaggi non fanno danni ed il lettore è tutto preso a seguire l’evolversi degli eventi. Nel «Popolo» invece i personaggi farisaici sono cinque, così dove non arriva uno arriva sicuramente l’altro: il quinto è Lylda, persino più intollerabile del marito per il dogma che le donne oroidi non possono mentire (nel diritto locale basta una loro parola per mandare a morte un uomo). Mentire magari no: ma sbagliare – e alla grossa – un giudizio sì, com’è dimostrato più volte nel corso della storia: ma appunto, privi di autoconsapevolezza come sono, nessuno dei protagonisti se ne accorge.
In definitiva, non è questo il libro adatto per avvicinarsi alla fantascienza delle origini: anzi, a leggerlo senza la dovuta preparazione si corre il rischio opposto, di esserne respinti irrimediabilmente.

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