Di stile più grezzo rispetto ai racconti successivi ma già carica di quelle atmosfere che sarebbero poi divenute distintive dell’autore, «La città senza nome» di Howard Phillips Lovecraft (The Nameless City, 1921) narra una vicenda ricca di mistero in cui si mescolano criptostoria, orrore e tanta fantasia: che sono poi gli ingredienti chiave non solo per scrivere un bel racconto, capace di destare l’attenzione del lettore, ma anche per creare scene suggestive che rimangono impresse nella mente. La storia tuttavia non è perfetta e ha almeno un difetto: descrive chiaramente le emozioni che vorrebbe suscitare invece di limitarsi a suggerirle e lasciare che sia il lettore stesso a scoprirle, come dovrebbe fare un buon racconto dell’orrore. Ma tutto sommato si tratta di un difetto marginale, che spiega lo stile più grezzo accennato in apertura, perché nell’insieme «La città senza nome» rimane un buon racconto e riesce a portare il lettore esattamente dove vuole: indietro nel tempo, in un’epoca prestorica di fantasia in cui l’uomo non aveva ancora fatto la sua comparsa e la terra era invece abitata da creature da incubo.
Per questa motivazione di atmosfera e suggestioni ho incluso «La città senza nome» nella mia classifica dei migliori dieci racconti di Lovecraft, al sesto posto, dietro ai «Topi nei muri» e davanti alla «Casa evitata» che commenterò prossimamente.
Emozioni a comando
Per scrivere «La città senza nome» (pubblicata nel 1921 da un periodico amatoriale dopo essere stata respinta da tutte le principali riviste dell’epoca, Weird Tales inclusa) Lovecraft si ispira ancora ai suoi modelli preferiti – soprattutto Lord Dunsany e Poe per l’atmosfera – ma getta anche le basi di uno stile suo proprio, che poi svilupperà in seguito: soprattutto, si intravede lo scheletro di quello che diventerà l’orrore cosmico di Cthulhu e compagni.
Infatti non solo vi fanno capolino alcuni elementi ricorrenti del Mito, come l’arabo pazzo Abdul Alhazred (qui ancora separato dal Necronomicon, del quale anzi non si fa nemmeno menzione), le frasi criptiche e diversi luoghi di fantasia, come Sarnath (che era già apparsa nel titolo di un precedente racconto), la terra di Mnar e Ib, mescolati a personaggi e luoghi reali per creare quella falsa impressione di autenticità o storicità, come Gautier de Metz ed il suo trattato «Image du monde» (un assaggio degli pseudolibri come appunto il Necronomicon che appariranno nei successivi racconti) e la città di Iram nell’Arabia, menzionata nel Corano, le cui rovine sono state scoperte solo negli anni Novanta con l’esplorazione aerea; ma anche la narrazione segue uno schema che tornerà in futuro, perché accompagna il lettore per gradi verso la progressiva rivelazione dell’orrore, dalla lieve inquietudine iniziale dovuta all’esplorazione delle antiche rovine maledette sino alla manifestazione del mistero che ancora risiede nelle viscere della terra.
Tuttavia il racconto fa più che solo accompagnare il lettore in questa scoperta progressiva: vuole anche essere sicuro di destare certe reazioni e per farlo mostra invece di suggerire le emozioni che si dovrebbero provare. L’esploratore anonimo infatti ripete espressioni come «ero più spaventato di quanto posso spiegare», «mi sentii annullare all’idea che…», «l’orrore fisico della mia posizione», «il paragone col terrore mortale che provavo», «venni colto da una nuova ondata di paura, di quella paura che…», tutti stati d’animo perfettamente adeguati alla situazione e pure verosimili – anche se ben difficilmente qualcuno che provasse un simile terrore si spingerebbe da solo così a fondo nell’esplorazione – ma in concreto non fanno altro che guastare l’atmosfera, perché sembrano voler costringere il lettore a sentire proprio quelle emozioni per così dire approvate dall’autore, e al momento opportuno.
Il narratore si discosta così dai protagonisti classici di Lovecraft, che conoscono sì la paura ma non continuano a farne menzione: si pensi ad esempio al coraggio con cui nel «Caso di Charles Dexter Ward» il dottor Willett, rimasto al buio, esplora le catacombe di Curwen senza mostrare segno di quella paura che sicuramente deve aver provato già nel discendere la scala, per non parlare poi del resto della perlustrazione.
Appunto per questo insistere apertamente sulle emozioni «La città senza nome» ha il sapore di un racconto ancora grezzo, anche se già mostra una maturazione di Lovecraft rispetto alle storie precedenti: infatti, ancora pochi anni ed il nostro pubblicherà infine tutte le sue opere più memorabili.
Un ardito esploratore
Nel deserto dell’Arabia un esploratore anonimo, che è anche il narratore, giunge alle rovine della città senza nome: mentre le esplora rimane colpito da certi elementi architettonici degli edifici, che hanno i soffitti bassi – così bassi che è costretto a stare inginocchiato per entrarvi – ed altari poco più alti del pavimento. Dopo due giorni di scavi la sua attenzione viene infine attratta da un forte vento che soffia solo tra le rovine all’alba e al tramonto: proviene da una scala scavata nella roccia in fondo ad un tempio.
Il protagonista segue per ore questa scala, che scende nelle viscere della terra: non è formata da veri gradini ma da appigli, e a tratti la volta è così bassa che è costretto a strisciare, anche nel buio quando la torcia che porta con sé si esaurisce.
Ma alla fine viene premiato da una scoperta incredibile: un lungo corridoio le cui pareti sono costellate di casse di legno dorato e coperchi di cristallo. Ormai abituatosi al buio e favorito da una leggera luminescenza che proviene dall’altro capo del corridoio, l’esploratore scopre che non sono semplici casse ma sarcofagi, al cui interno sono deposte le mummie di creature orribili ma rivestite di abiti raffinati: più piccole dell’uomo, sono rettili il cui aspetto è una via di mezzo tra coccodrilli e foche con le corna e la mascella sporgente; le zampette anteriori terminano in mani simili a quelle umane.
Le pareti del corridoio sono anche ricoperte di disegni che narrano la storia di questo popolo misterioso e progredito: quando la regione, un tempo fertile, è diventata arida a causa del ritirarsi del mare, i superstiti hanno infine cercato rifugio sottoterra. Solo in una delle ultime scene appare un uomo primitivo, mentre viene fatto a pezzi da questi rettili.
Seguendo i disegni, il narratore è quindi arrivato all’origine della luminescenza: un portale di bronzo che si affaccia su un mondo sotterraneo del quale non scorge nulla, perché una nebbia ricopre ogni cosa. Ma è da qui che proviene il misterioso vento ed è sempre da qui che, mentre sta ancora riflettendo sulla scoperta, giunge un’orda di quelle creature, semitrasparenti, con un atteggiamento aggressivo.
Fine della storia: in qualche modo l’esploratore riesce a mettersi in salvo (lui stesso non ricorda come) ma, ovviamente, rimarrà segnato dall’esperienza per tutta la vita.
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