Antonio Colacicco non delude mai: per lo meno, non delude le mie aspettative. Che solitamente sono abbastanza modeste quando si tratta di scrittori emergenti, troppo dediti ad un realismo così crudo che sa di fasullo e tra turpiloqui, scene azzardatissime e splatter a tutto spiano – per non parlare della grammatica spesso traballante – fa svanire la voglia di leggere in un fiat.
Al contrario, Colacicco ha uno stile più delicato: scrive del quotidiano, di piccoli scenari familiari, della provincia, storie che a volte hanno il sapore del mondo piccolo di Guareschi e altre dei fatterelli da notiziola breve delle cronache locali. Raramente va sopra le righe e, anche se qualche volta si lascia prendere la mano, è appunto l’eccezione, non la norma: così, come ho già avuto modo di affermare nelle precedenti recensioni (qui e qui), lo leggo volentieri, quando me ne capita l’occasione. Come appunto nel caso di «Chiusi per ferie», il suo ultimo libro (antologia, per l’esattezza: ma contiene piccole storie che si intrecciano tra loro in una trama più grande), che mi è stato presentato a giugno e di cui ho subito ricevuto il pdf in omaggio, per farne una recensione come sempre onesta: e, sebbene sia leggermente inferiore a «Sottoterra», col quale condivide alcuni elementi marginali, non l’ho trovato affatto sgradevole.
Frammenti di vite
Pubblicato ad aprile di quest’anno dalla PAV Edizioni, «Chiusi per ferie» è una raccolta di dieci brevi racconti che narrano le vite di una manciata di personaggi nell’arco di ventiquattro ore, a cavallo tra la mattina del 13 agosto di un anno imprecisato e la successiva: con alcune eccezioni, queste storie si intrecciano tra loro, a volte in maniera diretta e altre indiretta. Tutte però, con l’eccezione di una sola, sono collegate da due elementi comuni: l’apparizione improvvisa di un gattino bianco e l’«ospedale», da intendersi in senso più ampio come l’accesso o il contatto con un qualche servizio sanitario.
Mentre nel gattino bianco si può vedere o immaginare il segno di un intervento esterno – o anche solo l’interesse da parte di un qualcosa di «soprannaturale» per il protagonista di quel segmento di storia – per l’ospedale e dintorni non sembra esserci nessun’altra motivazione a parte gettare una piccola dose di dramma nella storia, e poi usarlo per cucire assieme le diverse trame. A dispetto del titolo, verrebbe da dire, gli ospedali non chiudono mai per ferie e proprio nel contrasto tra il ferragosto, apice dell’estate vacanziera, e l’attività degli ospedali che non si ferma mai verrebbe da cercare la scintilla da cui è scaturito il libro: ma sarebbe una ricerca vana, perché le storie parlano di esperienze personali, non di salute, che è solo uno degli ingredienti.
Il libro narra infatti scene del quotidiano, senza nulla di eroico né di misterioso: semmai, affiora qua e là quella lieve tinta tragica o drammatica di cui si è detto poco sopra, ma è ancora troppo sfumata per poter affibbiare all’antologia nel suo insieme l’etichetta di dramma, se non nel senso più ampio di vicenda o rappresentazione. Sembra invece soprattutto un commento pessimistico dell’autore, che tradisce così una sorta di leggero nichilismo di fondo, evidente nella chiosa finale, laddove Colacicco dichiara che «fa tutto parte della vita e non possiamo proprio farci niente».
Dei dieci racconti contenuti nel volume, sette formano un blocco narrativo unico e riguardano le interazioni degli stessi quattro personaggi (Greta, Margherita, Lucio, Franco), anche se nel primo di questo gruppo il collegamento è labile e diviene evidente solo verso la fine del libro; dei tre rimanenti, due sono collegati tra loro (Giulia e Carlo) e descrivono la stessa situazione vista da due punti di vista opposti; ed uno, quello di apertura (Pierluigi), per tono e stile sembra quasi una storia a sé, separata dalle altre, nonostante la presenza dei due elementi comuni (gattino bianco ed ospedale) ed un possibile collegamento al primo blocco che però è solo intuitivo.
Proprio quest’ultimo però è il racconto che, come accennato nell’introduzione, condivide anche alcuni elementi marginali con «Sottoterra», il primo libro di Colacicco: è un’impressione di pancia più che altro ma il protagonista, Pierluigi appunto, ha una progressione nella breve storia che ricorda quella di Fabio, il protagonista dell’altra. Entrambi sono giovanissimi, abitano nella periferia romana, sono appassionati di pesca, ambiscono a catturare la preda che li renderà gli eroi del circondario e frequentano un bacino artificiale, che in «Sottoterra» era chiamato «il Vascone» e qui è «il Quadrato»: e, soprattutto, entrambi terminano la storia nello stesso modo.
Dalle virgole alle virgolette
L’antologia si compone di dieci racconti, preceduti e seguiti da una «Cronaca del giorno»: un breve commento ed un’ancor più breve biografia dell’autore chiudono il volume, che conta centosessanta pagine (numerate!) e persino un indice, due rarità nell’editoria moderna delle quali sento sempre la mancanza. Tuttavia, il contenuto reale è inferiore alle centosessanta pagine nominali, perché il carattere usato è molto grande (a occhio si direbbe almeno un corpo quattordici) e le righe per pagina non superano le ventidue, per un seicento battute abbondanti a pagina: il libro quindi è paragonabile più correttamente ad un volume da non più di ottanta/cento pagine «tradizionali», stampate cioè con un carattere più minuto.
Da ciò però si ricava che «Chiusi per ferie» non è lungo ed anzi si legge tranquillamente in un paio d’ore abbondanti.
Dal punto di vista della revisione editoriale il libro sa un po’ di sciatteria: a prima vista si presenta bene ma la buona impressione iniziale non regge la lettura già delle prime pagine, perché subito affiorano errori ed orrori. Qua e là infatti fanno brutta mostra di sé parecchie sgrammaticature come «mentre lei (…) riuscì di bisbigliare» (pag. 26), «avrebbero potuti essere» (pag. 56), «di questo dobbiamo esserne contenti» (pag. 63) assieme ad altre minuzie, per lo più refusi, come «uno fastidioso magone» (pag. 101), «tras-formi» (pag. 128), diverse maiuscole e minuscole fuori posto, e la frequente ripetizione della locuzione «a lavoro» senza l’articolo («al lavoro»), che così è una forma regionale colloquiale.
Qua e là anche l’interpunzione è traballante, se non del tutto assente (in molte occasioni manca il punto fermo alla fine della frase), ma nell’insieme Colacicco sembra essere guarito dalla «virgolite» – ossia la sovrabbondanza di virgole – che aveva caratterizzato i suoi primi lavori: tuttavia, risolto il problema delle virgole, è spuntato quello delle virgolette, che per tutto il volume continuano a rimbalzare dalle virgolette «maggiore/minore» alle virgolette “inglesi”, senza ragione apparente.
Ho provato ad immaginare che le une fossero adoperate, per esempio, per il discorso diretto e le altre per i pensieri o l’introspezione dei personaggi ma non sono riuscito a trovare nessun appiglio che giustifichi il frequente cambio né alcun uso consistente delle une rispetto alle altre in situazioni riconoscibili: semplicemente, all’improvviso passano dall’uno all’altro tipo, a volte addirittura la stessa frase viene aperta dalle une e chiusa dalle altre.
Perciò, l’unica motivazione che posso trovare è che il libro sia stato scritto su due o più computer diversi, e che non tutti siano dotati dello stesso set di caratteri: ma ritengo anche che nella revisione editoriale qualcuno avrebbe dovuto accorgersi di queste virgolette ballerine e uniformarle immediatamente, così come avrebbe dovuto sistemare gli altri orrori citati.
Vite lasciate in sospeso
Esaminata così la parte formale di «Chiusi per ferie», rimane solo da commentare il volume dal punto di vista dei contenuti. E credo di aver già lasciato trasparire il mio pensiero al riguardo: nell’insieme non è un cattivo libro. È leggermente inferiore a «Sottoterra» ma è sicuramente superiore a «Raccontamelo soltanto se piove», le due precedenti opere di Colacicco: infatti non solo i personaggi sono caratterizzati abbastanza bene – alcuni meglio di altri – ma anche l’intreccio tra i loro frammenti di vita è solido e regge una storia che, pur priva di un vero fuoco di interesse e soprattutto di un epilogo, ha un suo senso.
Questa assenza di uno scopo, del punto verso cui dovrebbero convergere tutte le storie, è però anche il difetto principale del libro: la narrazione infatti non ha né un vero punto di partenza né tantomeno uno di chiusura ma è un semplice estratto di ciò che accade in un certo momento nelle vite dei protagonisti, che non vengono cambiate dagli eventi. Interessate, sì, e in alcuni casi profondamente: ma cambiate, assolutamente no; almeno, questo non traspare affatto dalla storia che viene qui raccontata.
Mi spiego meglio: una delle prime cose che ho imparato in tanti anni di masterizzazione (a grandi linee, una via di mezzo tra la narrazione e l’arbitrato) di giochi di ruolo vari è la necessità di dare uno scopo ai personaggi; questo è particolarmente importante per le cosiddette «one-shot», avventure che si aprono e chiudono in un’unica sessione di gioco con protagonisti pregenerati per risparmiare tempo. La mia regola di massima per dare un senso a queste avventure e renderle interessanti per i giocatori è che la vicenda vissuta dai personaggi deve essere memorabile: che sia un pericolo mortale al quale sfuggire, un mistero impenetrabile da risolvere, un tesoro favoloso da scoprire, quell’avventura che stanno giocando è l’esperienza più importante della loro vita (dei personaggi, intendo), e perciò deve avere un coinvolgimento emotivo forte e possibilmente un epilogo che la rendano unica, indimenticabile. La classica storia da raccontare ai nipoti.
Ecco, nella mia mente questa raccolta è l’equivalente di una one-shot: anzi, un insieme di one-shot. Ma a differenza delle avventure di cui ho appena parlato manca completamente di uno scopo più ampio, di quel senso di «esperienza più importante della vita» che dovrebbe interessare ogni protagonista. Ci sono, questo sì, due o tre episodi che possono segnare profondamente la vita (si parla di tradimento, violenza, aborto) ma manca completamente l’evento grandioso, quel qualcosa di unico non solo nella vita di una persona ma anche nell’esperienza comune: tutti infatti possono vivere le stesse esperienze dei personaggi di questo libro – per quanto negative ed esecrabili – ed anzi ogni giorno qualcuno sicuramente deve fare i conti con situazioni analoghe, se non addirittura identiche.
È la quotidianità estremizzata, senza neanche un solo tentativo di ruggire.
In altre parole, dal libro emerge un senso di incompiuto, o addirittura inconcludente: le trame vengono aperte, sviluppate un po’ e poi lasciate in sospeso, come se il libro fosse l’estratto di un’opera più grande di cui però non si ha notizia. Nel commento finale Colacicco dimostra di essersi reso conto di questo difetto e spiega le difficoltà che ha incontrato ma, per quanto apprezzabile, questa nota non cambia il nocciolo del problema: il libro manca di una direzione.
A mio parere Colacicco è un buon narratore, che riesce a parlare di cose semplici e familiari creando la giusta atmosfera: tuttavia con questa antologia non è riuscito ad esprimere tutte le sue qualità. Si lascia leggere, certo, ma alla fine il lettore si chiede anche cosa volesse comunicare: va bene la simbologia del gattino bianco (ma il bianco esprime purezza, e solo Pierluigi, il primo personaggio, sembra essere ancora puro), va bene l’ospedale (per un’overdose di emozioni), va bene pure che «la vita accade e non possiamo farci niente» (parafrasi) ma un epilogo solido, un qualcosa che dia un senso ai piccoli drammi familiari qui narrati, avrebbe dato un senso anche al libro nel suo insieme.