Ho appena scoperto che a marzo è morto John Jakes, nel silenzio dei media e persino dei social, che solitamente fanno un gran baccano ogni volta che ci lascia un carneade qualsiasi, e Jakes non era certo un parvenu: in termini concreti però questo significa che non vedremo altre storie di Brak. Il sospetto mi era già venuto da un po’, considerato che 1) l’ultima raccolta dell’eroe risale ad oltre quarant’anni fa, 2) che a partire dagli anni Settanta Jakes aveva dato la precedenza ai romanzi storici ambientati durante la guerra di secessione americana e 3) che dagli anni Novanta in poi aveva praticamente smesso di scrivere, ma a questo punto è una certezza: il viaggio verso sud del barbaro biondo rimane quindi incompiuto e anche noi come lui non vedremo mai la leggendaria Khurdisan.
Perciò, in ricordo di Jakes, pubblico oggi la recensione al terzo dei cinque volumi che narrano le avventure di Brak: purtroppo non è il migliore della serie ma è il primo in ordine «cronologico» che attendeva di essere pubblicato su questo blog.
E anche «Brak the Barbarian Versus the Mark of the Demons» di John Jakes (1969), terzo nella serie di cinque volumi che raccontano le gesta del barbaro eponimo, è una delusione: come per il precedente «Sangue di strega», infatti, la storia è guastata dalla forzatura del formato romanzo, perché nelle sue linee essenziali l’avventura non sarebbe poi così male. Ma per reggere le centosessanta pagine del libro – invece della cinquantina che sarebbe più che sufficiente per un più decoroso racconto onnicomprensivo – la trama deve essere così tirata che, ancora una volta, fa fare una magra figura al protagonista.
Che alla fine trionfa, sì, ma più per una serie fortuita di combinazioni che per le proprie capacità.
Una buona storia rovinata dalla lunghezza
Pubblicato subito in volume nel 1969 dopo i promettenti esordi del personaggio, che prima di questo libro aveva già brillato nei racconti brevi «Devils in the Walls» (1963), «The Girl in the Gem» (1965), «The Silk of Shaitan» (1965), «The Pillars of Chambalor» (1965) e «The Mirror of Wizardry» (1968), apparsi tutti sulle riviste (e poi pubblicati nel primo e nel quinto volume della serie), questo «Brak the Barbarian Versus the Mark of the Demons» è il terzo dei cinque volumi che compongono le avventure del barbaro Brak nel suo cammino verso la favolosa – e, soprattutto, calda – Khurdisan, dopo la sua cacciata dalla tribù natia dell’estremo nord per empietà verso gli dei.
Come il precedente «Sangue di strega» (tradotto) ed il successivo «When the Idols Walked» (mai tradotto), questa avventura – pure mai tradotta in italiano – è appunto un romanzo, e questo è anche il punto debole di tutte e tre le storie appena menzionate: la sword and sorcery infatti, nata sulle riviste pulp degli anni Venti e Trenta, è caratterizzata soprattutto dalla brevità dei racconti e dall’azione rapida e ininterrotta, cioè l’esatto contrario di ciò che serve per fare un romanzo, che invece ha bisogno di tempi lunghi, di pause e di costruire la storia passo dopo passo, per riempire tutte le pagine.
Così anche «Mark of the Demons» soffre per la lentezza della trama: di conseguenza, Brak non appare né troppo sveglio né troppo capace, perché non solo non riesce a rendersi conto della minaccia costituita dai due fratelli che senza ragione prende sotto la sua tutela all’inizio del libro ma non è nemmeno capace di cogliere gli indizi evidenti né di collegarli tra loro. Anzi, non vuole neppure accettare le prove schiaccianti che gli vengono mostrate, e che ha avuto davanti agli occhi tutto il tempo.
Vabbè, pazienza – si penserà – Brak è un barbaro e quindi è più abituato ad usare i muscoli che il cervello. Sbagliato, perché anche quando c’è da menare le mani Brak viene steso al tappeto con una facilità disarmante: proprio come in «Sangue di strega», anche qui finisce ko ben cinque volte e sempre se la cava per la bontà (o stupidità) dell’avversario. Sono scene che fanno arrabbiare, perché sono chiaramente costruite per allungare la trama ignorando però sia il buon senso sia le caratteristiche del personaggio, che nei primi racconti era stato presentato tanto acuto di mente quanto forte di braccio: nulla nella storia spiega questo suo istupidimento improvviso se non, appunto, il formato romanzo, che decisamente non è congeniale né alla sword and sorcery in generale né a questo eroe in particolare.
Oh, no, ancora vampiri!
A incidere sul mio giudizio poi interviene anche un altro fattore: la natura dei due antagonisti.
Infatti se c’è una creatura – o un mostro, se vogliamo – dell’immaginario classico che proprio non sopporto, questa è senza dubbio il vampiro, in qualsiasi veste compaia, dal damerino tutto azzimato alla Dracula al soyboy palliduccio alla Twilight, passando per tutta la gamma di succhiatori di ogni epoca o ambientazione che, a parte il nome o le fattezze più fantasiose, non sono altro che una rivisitazione dello stesso concetto: il succhiasangue.
E proprio vampiri di fatto sono i demoni (fratello e sorella) il cui marchio dà il titolo al volume: immortali, creati in un lontano passato dal malvagio Yob-Haggoth, il dio malvagio che spesso compare sulla strada di Brak, questi demoni hanno le stesse caratteristiche e le stesse debolezze dei vampiri tradizionali, compresi i paletti di legno, le croci, gli specchi e tutto il resto. Con due sole eccezioni però: non temono né il giorno né la luce del sole, tanto che si imbattono nell’eroe nel bel mezzo di un deserto; e non succhiano solo il sangue delle vittime ma anche i muscoli, gli organi e le ossa, lasciando solo l’involucro esterno, la pelle, sottile come un foglio di carta orribilmente sagomato.
In qualche punto del corpo lasciano anche il loro marchio, tre puntini disposti a triangolo che corrispondono ai segni impressi dai due canini e dalla lingua: e così, mentre il numero dei carovanieri si riduce ed i superstiti patiscono quasi la fame, solo i due fratelli demoni continuano ad ingrassare. Ma, a parte una lieve avversione motivata soprattutto dal loro comportamento eccentrico, nessuno sospetta di loro: nemmeno Brak, che sembra quasi tapparsi le orecchie (gli occhi li ha già chiusi) quando qualcuno cerca di attirare la sua attenzione sulla scia di indizi che i due demoni si lasciano alle spalle senza riguardo per essere scoperti.
Così la storia stessa soffre perché non è in grado di offrire antagonisti più interessanti di una coppia di vampiri, i più banali e squallidi mostri che siano mai entrati nel campionario del soprannaturale.
Una storia ambientata nel deserto
Perso in una tempesta di sabbia nel deserto, Brak accorre in aiuto di due giovani – fratello e sorella – attaccati da un uccello gigante: dopo averli salvati, li prende sotto la sua tutela. I due giovani si sono persi nel grande deserto di Logol che anche l’eroe – nonostante il parere contrario degli indigeni, che avevano cercato di dissuaderlo dall’impresa – sta attraversando nel suo viaggio a sud verso Khurisan: i fratelli, Ky e Kya, dicono di essere i principi esuli del regno di Jovis, il cui trono è stato usurpato dal classico zio malvagio. Dopo giorni di digiuni e vagabondaggi, il terzetto incontra infine la carovana di un mercante, Hadrios, che dopo averli sfamati e dissetati accetta di prenderli con sé per il resto del tragitto: per pagare il viaggio a tutti e tre Brak lavorerà come supervisore delle maestranze, mentre ai due fratelli viene consentito di oziare tutto il tempo. Ma Brak non si lamenta per l’iniquità di trattamento.
Già quella notte arriva la prima vittima: all’alba ciò che resta di madre Mil, la vecchia zia cieca di Hadrios, viene trovato tra i cespugli. È solo la pelle dell’anziana donna, svuotata di tutto il suo contenuto – sangue, muscoli ed ossa – ma con tre piccoli buchetti disposti a triangolo sulla spalla: per la più stupida delle ragioni (non spaventare nessuno) Brak decide di limitarsi a dare la notizia della morte della donna ma di tenere per sé lo stato dei suoi resti, ai quali dà fuoco.
La notte successiva il «capitano» Gorzhov, l’esploratore della carovana, tende un agguato a Brak con l’aiuto di un certo Civix, l’uomo al quale il barbaro ha strappato l’incarico di responsabile delle maestranze: i due avevano preso in antipatia il protagonista da subito. Brak, accecato da una polverina che Gorzhov aveva rubato dalla sacca di madre Mil, si salva solo perché all’improvviso compare una nebbiolina che attacca Civix, già pronto a piantargli un pugnale nel petto, e lo spreme come un brick di succo di frutta.
L’indomani finalmente l’eroe si decide a parlare della situazione con Pol, un prete nestoriano che ha messo in dubbio la propria fede ma, a differenza del barbaro, ha capito subito con cosa hanno a che fare: questo però è anche il momento in cui entrano in scena i predoni di Quran, un popolo del deserto i cui guerrieri, per mostrare il proprio coraggio, sono soliti cavarsi un occhio e sostituirlo con un rubino. Così la carovana viene prima attaccata e poi annientata alcuni giorni più tardi, per vendicare la morte di un parente stretto del re ucciso da Brak nella prima schermaglia.
Solo i protagonisti (i personaggi con un nome) si salvano, per essere portati come schiavi nella splendida città dei briganti: ma il re e tutti i nobili di Quran sono già caduti vittime dei fratelli demoni, che hanno ingannato l’aristocrazia con la promessa della vita eterna come vampiri, perché in realtà solo Yob-Haggoth può creare simili demoni. In questo modo però Ky e Kya si sono circondati di servitori fanatici, che desiderano appagare ogni loro desiderio.
Come sempre con molta fortuna e approfittando delle circostanze, Brak riesce a risolvere la situazione: quando tutto sembra perduto, uccide i due demoni piantando – e questo è già abbastanza ridicolo – la gamba di legno di Hadrios, santificata dal solo contatto con la croce di pietra del prete nestoriano, nella nebbiolina in cui Ky e Kya si sono trasformati per attaccarlo. Nell’incendio che accompagna la lotta finale scompare la città dei briganti, distrutta dalle fiamme e dal crollo delle sue torri maestose.
Alla fine solo Brak, Hadrios ed Helane sua figlia si salvano, oltre ad alcune migliaia di abitanti di Quran che guardano i tre con odio ma desistono da ogni vendetta perché si rendono conto che il barbaro ha sì distrutto la città ma li ha anche salvati dai vampiri e dall’orribile destino che sarebbe capitato a tutti loro se i demoni non fossero stati sconfitti.
Come un turista
Se «Brak the Barbarian Versus the Mark of the Demons» fosse solo un racconto, sarebbe una buona lettura: l’ambientazione particolare offerta dal deserto e dalla carovana che lo attraversa faticosamente è abbastanza originale per attirare l’attenzione, e le numerose avversità che i protagonisti devono affrontare – molte delle quali ho evitato persino di nominare nel breve riassunto precedente – offrono una varietà di situazioni sufficiente per tenerla desta. I predoni di Quran da soli basterebbero a rendere interessante la storia, con i loro rubini posti in luogo degli occhi che si cavano da sé come prova di coraggio, e la loro dottrina predatoria che tiene in vita una città tanto fiorente quanto depravata.
Purtroppo però il formato romanzo guasta tutto questo, perché triplica il numero di pagine necessarie per raccontare la storia: così la narrazione viene rallentata e allungata con ogni genere di espediente. E trattandosi di sword and sorcery, quindi di un genere che dipende dalle azioni del protagonista, l’unico modo per farlo è modificare il carattere stesso dell’eroe, che all’improvviso e senza ragione diventa stolto e debole: così Jakes può aggiungere tutta una serie di scene che altrimenti, con un personaggio brillante come quello che avevamo avuto modo di apprezzare nelle storie brevi, non sarebbe stato possibile inserire.
Ma, appunto per questo, si rimane con l’amaro in bocca, perché Brak non sembra essere più lo stesso: ottuso di mente e lento di braccio, non coglie correlazioni evidenti che non sfuggono nemmeno al lettore (al quale invece solitamente vengono taciute certe informazioni essenziali) e viene facilmente sconfitto nelle prove fisiche, anche solo per estenuazione.
Qui Brak è declassato a comparsa, un ometto che appare in tutte le scene e si dà tanto da fare ma in definitiva è privo di un ruolo attivo nella storia. Le cose semplicemente accadono e l’eroe si trova nel mezzo ma non può né impedirle né guidarle né controllarle: al contrario, è in balia di chi gli sta attorno, dell’ambiente, e si limita a rimbalzare qua e là come un turista che, nella foga di un viaggio organizzato, viene trascinato dalla guida da un monumento all’altro senza avere il tempo di assimilare quello che ha visto, o di decidere da sé quello che vorrebbe vedere.
Con una certa esagerazione, si può arrivare a dire che disonora il titolo di «barbaro», il più prestigioso che ci sia per un eroe della sword and sorcery, dal momento che non è all’altezza delle prove che deve superare: e se ci riesce, è solo per fortuna, o per coincidenza, o per incompetenza dell’avversario. Tutte circostanze che non possono mancare nella sword and sorcery – costituiscono il repertorio classico di questo genere letterario – ma che non dovrebbero nemmeno mai diventare preminenti rispetto alla forza fisica e all’astuzia del protagonista.
Così, come il precedente «Sangue di strega», anche questo secondo romanzo della serie di Brak finisce per essere insoddisfacente: si rimpiangono le storie brevi, che torneranno proprio nell’ultimo volume della serie, «The Fortunes of Brak», per ridare decoro ad un eroe che, nonostante alcuni bassi, rimane tra i più memorabili della sword and sorcery.
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