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Nelson S. Bond – Gli dei della giungla

I pulp sono una miniera inesauribile di idee, entusiasmo e creatività ma si perdono quando devono entrare nel territorio della coerenza e dell’accuratezza, sia essa storica, scientifica o anche solo tecnica: e «Gods in the Jungle» di Nelson S. Bond, pubblicato in due puntate su Amazing Stories nel giugno e luglio 1942, ne fornisce un esempio da manuale, perché imbastisce una storia fantasiosissima nella quale confluisce l’intero campionario dei pulp d’avventura – viaggi nel tempo, alieni, superscienza, mitologia, persino fortianesimo… – ma senza un solo grammo di realtà, o almeno realismo. Proprio perché quello che conta è la storia: e la storia, pur con alcune smancerie tipiche dell’epoca e del genere, è di quelle capaci di tenere incollati i lettori grazie ad una trama così creativa.
C’è anche spazio per alcuni cenni alle opere pseudoscientifiche di Charles Fort – il padre putativo del paranormale, dell’ufologia e delle altre teorie collegate agli alieni – alle quali Bond dedica numerose note qua e là: tra questi spunti rientrano gli uomini blu delle leggende e di alcune antiche raffigurazioni, le rovine di vetro di certe fortezze, la cintura di asteroidi al di là di Marte che sarebbero i soliti resti di un pianeta esploso, già origine comune degli abitanti della terra, di Venere e di Marte e così via. Si prendono per quello che sono, semplici spunti che arricchiscono con un senso di mistero una trama già ricca di invenzioni e le danno una parvenza di realtà: quella che, altrimenti, non potrebbe proprio ambire di avere.

Una storia che parte dall’attualità
Tutto parte dalle rovine di Angkor Wat in Cambogia nell’epoca odierna: l’oggi del racconto, che è il 1942, quindi durante la seconda guerra mondiale. Qui a voler essere precisi è probabilmente ancora il 1941, appena prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, perché i giapponesi hanno già occupato l’Indocina ma l’America non è ancora entrata ufficialmente nel conflitto: i piloti americani infatti combattono come «volontari» nell’aviazione cinese. E proprio due di loro, Ramey Winters e Red Barrett, sono stati appena abbattuti durante una missione di esplorazione: il loro velivolo si è schiantato a poca distanza dall’enorme tempio cambogiano, dove una spedizione archeologica americana è impegnata a svelarne i misteri. Così gli studiosi soccorrono i piloti e li travisano con abiti civili puliti in modo tale da farli apparire membri della spedizione archeologica.
Ma i giapponesi mandati quel giorno stesso ad investigare il relitto dell’aereo non mangiano la foglia: nelle scene che seguono i due piloti, assieme a cinque membri della spedizione più uno (il professor Aiken e la figlia Sheila, i gemelli Lake e Syd O’Brien; ed un bonzo pazzo ma innocuo che si era aggiunto agli archeologi, Sheng-ti), si rifugiano in un cubo di acciaio trovato nello scantinato. È una macchina del tempo che, una volta attivata, li riporta indietro di cinquemila anni, in una terra che è un po’ un minestrone di tutte le epoche e di tutti i popoli dell’antichità.
Qui succede tutto quello che ci si può aspettare, più altro ancora: perché la fantasia di Bond è finalmente libera di esplodere. Così si apprende che Angkor Wat sarebbe ben più vecchio del migliaio di anni stimati dall’archeologia ufficiale, perché i nostri viaggiatori nel tempo lo trovano già eretto e in tutto il suo splendore: lo avrebbero infatti costruito – come loro capitale sulla terra – gli alieni dalla pelle blu di cui parlano diverse leggende sia indiane sia celtiche, che poi non sono altro che i venusiani o Gaaneliani, umani in tutto tranne che nel colore della pelle. Ma le sorprese non finiscono qui: perché sulla terra oltre ai venusiani ci sono anche i marziani o Videliani, giganti alti più di due metri e, ovviamente, tanto gretti e malevoli quanto i venusiani sono gentili e pacifici.

Da mortali a dei
Emersi dunque dalla macchina del tempo, i nostri vengono chiaramente scambiati per dei e accolti con tutti gli onori: solo Sugriva, capo dei Gaaneliani, non casca nell’inganno, perché ha già capito come stanno le cose. Così prima fa passare gli otto per una macchina che, con una piccola ma dolorosa scossa, insegna loro la lingua parlata, così pare, da tutti nella terra del tremila avanti Cristo, poi spiega loro la situazione: sa infatti che dei non possono essere perché sono arrivati con la stanza del tempo che suo fratello Rudra aveva costruito per esplorare la storia passata della terra. Ma evidentemente Rudra deve essersi spinto anche nel futuro e qualcosa nel tessuto del tempo deve essere andato storto: Sugriva deduce quindi che è possibile solo andare a ritroso nel tempo rispetto all’epoca in cui si è nati – e ritornarci – ma mai in avanti.
Si entra così nel vivo della storia: i Gaaneliani hanno scoperto il volo spaziale e molto tempo fa lo hanno portato ai Videliani, credendoli puri di spirito come loro. Poi assieme sono scesi sulla terra, gli uni per aiutarla ad emergere dalla barbarie, gli altri per soggiogarla: la situazione al momento è in stallo, solo perché lo spaventoso Arco di Rudra è andato perduto. O meglio, era andato perduto, perché Ramey lo ha ritrovato nella macchina del tempo e preso con sé: è in sostanza una balestra atomica, capace di proiettare un raggio della distruzione ovunque venga puntata. Funziona col classico metallo rarissimo da trovare e che nessuno è in grado di descrivere o chiamare col suo vero nome: deve quindi essere qualcosa di abbastanza comune per i nostri protagonisti. Ed infatti lo è: si tratta del semplice alluminio, ma lo si scoprirà solo molto più avanti. Al momento quindi l’Arco è scarico ma la sua sola presenza è un deterrente sufficiente a tenere tutti tranquilli, soprattutto i Videliani.
Ospiti di Sugriva, i nostri passano delle settimane incantevoli nella città di Chitrakuta (il nome venusiano di Angkor Wat), durante le quali sboccia l’amore tra Ramey e Sheila. Ma poi Ramey combina il pasticcio che potrebbe costare caro a tutti: una sera, mentre cerca di resistere alle avance di Rakshasi, la panterona sorella di Ravana, il capo (usurpatore) dei Videliani, gli sfugge che lui e gli altri del suo gruppo non sono dei come tutti credono ma solo uomini. E così la situazione precipita.

Da dei a mortali
Quella notte Sheila viene rapita da Ravana, che già le aveva messo gli occhi addosso, e anche l’Arco di Rudra, che Ramey custodiva in camera, viene rubato (ma i ladri non gli torcono un capello sebbene stia dormendo). Poi tutti i Videliani si rifugiano nella loro città fortificata di Lanka, che occupa un’intera isola all’interno di un vastissimo lago non molto distante da Chitrakuta. La situazione è grave perché non solo si è spezzato l’equilibrio (ora a Sugriva basta trovare dell’alluminio per essere padrone del pianeta) ma c’è anche un problema ben maggiore da risolvere: Ramey deve liberare Sheila perché non può permettere che la sua ragazza sia sua prigioniera e men che meno concubina. Così il protagonista si traveste da indigeno e con Sheng-ti, che la macchina del linguaggio ha liberato anche dalla malattia mentale, cerca di infiltrarsi nella fortezza dei marziani: ma viene subito riconosciuto da Rakshasi e incarcerato, perché ucciderlo sul posto metterebbe fine alla storia.
Nelle poche ore che trascorre in prigionia si fa amico il gentile Vibhishana, il fratello maggiore di Ravana ed il leggittimo reggente dei marziani sulla terra, che l’usurpatore ha gettato in carcere invece che eliminare fisicamente: così, con l’aiuto di un capitano Videliano fedele al capo deposto al quale Ramey aveva appena salvato la vita, quella sera stessa l’eroe organizza la rivolta dei prigionieri e poi fugge dalla fortezza per ricongiungersi alle forze dei Gaaneliani, che sono composte per lo più di scimmioni intelligenti, i cosiddetti «nuovi uomini», che l’autore presenta così umanizzati da farli apparire più umani degli stessi uomini.
Col loro aiuto, e l’assistenza di un gruppo di scimmie scavatrici imparentate con quelle di Gibilterra (che qui viene storpiata in «Jibra Altar» o anche «Altar of Jibra»), trovano una galleria che passa sotto il lago e sbuca all’interno della fortezza marziana: giungono appena in tempo per dare man forte ai prigionieri evasi, che stanno ancora vendendo cara la pelle.

Una sfilza di errori madornali
Nei capitoli che seguono, succedono esattamente quelle situazioni assurde che ci si aspetterebbe da un cattivo film d’azione hollywoodiano: in primo luogo, Ramey e Lake O’Brien percorrono i corridoi del palazzo per mettere in salvo Sheila e l’Arco ma vengono attirati in una trappola da Ravana che, invece di approfittare del vantaggio per eliminarli, preferisce tradirsi con il più classico pistolotto da cattivo votato al fallimento. Nella lotta che segue Lake – pure lui pretendente a Sheila – rimane accecato dal lampo di energia emesso dall’arco di Rudra, che il malvagio Videliano era riuscito a caricare con appena un frammento di alluminio: quello stesso colpo incenerisce la malvagia Rakshasi ma permette all’usurpatore di fuggire. Ma almeno Sheila è salva.
A questo punto i marziani controllano ancora il porticciolo della fortezza e rendono così impossibile lo sbarco dei rinforzi Gaaneliani: ma il capitano Videliano che già aveva aiutato Ramey a fuggire riesce ad aprire il cancello del recinto degli schiavi, che emergono desiderosi di menare le mani e così costringono i Videliani ad un’altra ingloriosa ritirata.
Quindi Vibhishana (il legittimo capo dei marziani: non è facile tenere a mente questi nomi) propone di usare il sistema di comunicazione di una certa torre (in sostanza, l’equivalente di grandi casse acustiche rivolte in tutte le direzioni) per informare i guerrieri marziani che è ancora vivo e quindi invitarli a deporre le armi. Ma quando la piccola spedizione composta da Ramey, Vibhishana e pochi altri arriva in cima alla torre, Ravana è già lì che li aspetta: e ancora una volta perde tempo a sbrodolarsi di complimenti per la propria competenza, dimenticandosi così di fare quello che dovrebbe fare, ossia eliminare i nemici senza troppi riguardi.
In questo modo riesce a farsi soffiare di mano l’arco di Rudra (scarico), che Ramey ricarica in tutta fretta con i bottoni e gli altri oggetti di alluminio che i viaggiatori del tempo avevano messo assieme la sera precedente e lo rivolge contro l’usurpatore, distruggendo – sciogliendo, sarebbe più corretto dire – Ravana e parte della torre. A quel punto la battaglia è praticamente vinta.
Perché la battaglia sia combattuta con archi e spade invece che con fucili e raggi laser e perché non ci sia nemmeno l’ombra di una macchina volante o di un carro armato o di una qualsiasi arma almeno simile a quelle moderne, sebbene entrambi gli schieramenti siano tecnologicamente progrediti (dopotutto hanno le astronavi) non viene spiegato: e nessuno sembra nemmeno farci caso. La ragione pratica è semplice da intuire (l’autore non sapeva come gestirli e al tempo stesso voleva mantenere intatta un’ambientazione che desse l’impressione di una terra primitiva) ma il lettore moderno non può fare a meno di notare l’assenza di qualsivoglia diavoleria tecnologica, a parte il solo Arco di Rudra, che poi è soprattutto un espediente narrativo.

Un’avventura che è rimasta incisa nella storia
Nel lungo epilogo succedono diverse cose: venusiani e marziani decidono di abbandonare la terra, perché hanno fallito e le solite cose. I venusiani porteranno con sé gli uomini scimmia (o, meglio, le scimmie uomo: gli uomini scimmia in genere sono dei bruti degenerati mentre questi «uomini nuovi» sono creature nobilissime) perché si rendono conto di aver sbagliato a voler sovvertire l’ordine naturale eccetera.
Tutti i viaggiatori del tempo invece decidono di restare: il professore perché è la sua occasione di scoprire i misteri ai quali ha dedicato tutta la sua vita; i fratelli O’Brien per ragioni loro, non ultima la possibilità che la scienza venusiana restituisca la vista a Lake; Red Barrett perché si è trovato una bella ragazza proveniente dalla Britannia alla quale vuole insegnare il «proper English» (lei parla inglese arcaico); Sheng-ti per aiutare il suo popolo a crescere con le proprie forze, ora che è stato abbandonato dai Gaaneliani.
Solo Ramey e Sheila vengono quasi obbligati a tornare alla loro epoca: per raccontare quello che è successo, per svelare i misteri della storia e perché solo loro sono in grado di decifrare la lingua ed i geroglifici delle rovine cambogiane.
Così quando i due tornano nel tempio, ormai parecchie settimane dopo l’inizio della loro avventura (dei giapponesi non c’è più traccia), trovano la sopresa: un gruppo di bassorilievi che, prima del viaggio nel tempo, non avevano saputo decifrare raffigura chiaramente gli eventi di cui sono stati protagonisti. Ed ora si rendono pure conto che loro stessi ed i loro compagni sono diventati gli eroi ed i personaggi leggendari dell’induismo: durante il loro soggiorno nel passato infatti i loro nomi erano stati modificati per soddisfare l’orecchio degli antichi, per cui Ramey era divenuto Ramaiya, Sheila era divenuta Sheilacita, i Lake erano divenuti Lakshmana e così via.
Questo sì che è lasciare un segno nella storia.

Un concentrato dei temi pulp
Pur con alti e bassi, «Gods of the Jungle» scorre che è un piacere: la trama è magari rovinata da certi espedienti omai così abusati da suonare ridicoli alle orecchie del lettore moderno, non ultimo il cattivo che non impara mai dai suoi sbagli ed anzi persevera nel combinare un disastro dopo l’altro pur di non liberarsi mai del pericoloso avversario ed offrirgli sempre nuove occasioni per sconfiggerlo.
Già da questo si comprende che il racconto è sicuramente pieno di difetti ma passano in secondo piano, perché l’avventura è ricchissima; e soprattutto perché è un ottimo esempio di quelle storie da pulp che pensavano prima di tutto ad intrattenere il lettore e solo successivamente – forse – alla coerenza interna: ed infatti mentre lo si legge non viene nemmeno in mente di dover ricorrere alla cosiddetta «sospensione dell’incredulità» – un’espressione fastidiosa che serve solo a tradire un senso di superiorità intellettuale da parte di chi lo invoca – perché è chiaro che si ha che fare con una storia che ha l’unica ambizione di riuscire gradita al lettore e di divertire. Ed in questo riesce appieno.

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