Anche se la trama mescola alcune buone idee con un pizzico di ironia dissacrante ed un finale inaspettato, nell’insieme «Gli uomini nei muri» di William Tenn (Of Men and Monsters, 1968) manca di mordente e fatica a catturare: alla fine infatti ciò che rimane sono solo la satira (meritevolissima) ed il cambio di prospettiva sul ruolo dell’uomo nell’universo, che dal consueto «padrone del creato» viene ridimensionato ad un mero «parassita di categoria superiore» e come tale messo sullo stesso piano di topi e scarafaggi.
Uomini come topi
La storia si apre come i più tipici romanzi della riscossa dell’umanità soggiogata dagli invasori extraterrestri alla «Tumithak dei corridoi» (già recensito qui), un tema classico dell’età dell’oro: dopo generazioni, probabilmente secoli, di dominio alieno gli uomini hanno perduto la loro scienza e sono ridotti ad uno stato di semibarbarie. Sono divisi in piccole tribù che si fanno la guerra tra loro, abitano in cunicoli bui fuori dalla vista dei dominatori e girano seminudi, armati solo di lance: di quando in quando sbucano dai muri colossali in cui vivono per fare un’incursione in territorio alieno (l’interno delle loro abitazioni), per lo più per procacciarsi il cibo.
Ciò che viene taciuto per lungo tempo è che questi invasori, i Titani, sono effettivamente dei giganti di dimensioni spaventose: sono alti sui duecento metri, con sei zampe spesse quattro metri l’una. Il loro aspetto mostruoso viene completato da un lungo collo che termina in una piccola testa contornata di tentacoli, lunghi e rosa per i maschi, corti e rossi per le femmine: quest’ultimo elemento in realtà si ricava dalle serissime considerazioni dei protagonisti, che ad un certo notano come il secondo tipo di alieni si paralizzi quando vede i piccoli umani sul pavimento delle abitazioni (proprio come se fossero dei topi), mentre il primo tipo diventa subito aggressivo e cerca di schiacciarli.
Ed in un libro che fa dell’ironia discreta il suo biglietto da visita; che già nel titolo inglese si rifà al titolo di un altro romanzo che nomina i topi («Of Mice and Men» di John Steinbeck: si noti l’ordine dei sostantivi nell’una e nell’altra opera); che descrive le trappole disseminate qua e là dagli alieni per uccidere i parassiti umani; che non solo crea un paragone tra gli uomini ed i ratti ma ad un certo punto lo esplicita pure, come si vedrà; in un simile libro pare dunque impossibile che l’autore si sia lasciato sfuggire un’occasione d’oro per non aggiungere un tocco divertente che serve ad umanizzare gli invasori alieni.
Una prova di maturità
Il protagonista, Eric l’Unico (perché è figlio unico, motivo di vergogna), è un giovane pronto per entrare tra gli adulti dopo aver compiuto una prova di coraggio in territorio nemico, al termine della quale non solo cambierà nome in Eric l’Occhio ma avrà anche pieni diritti nelle tribù. Per la prova, invece di portare del cibo come fanno tutti, sceglie di recuperare un elemento della tecnologia titanica da usare contro gli invasori, perché così lo spinge a fare lo zio capobanda; e la prova fila liscia.
Solo che al ritorno Eric scopre che c’è stata una sorta di rivoluzione nella sua tribù, con epurazione della frangia più interessata a recuperare la tecnologia degli alieni per combatterli con le loro stesse armi che a mantenere quella specie di status quo nel quale viene semplicemente magnificata la grandezza dei terrestri dei tempi andati. Che così grandi non dovevano poi essere se, come pare, i Titani hanno conquistato la terra senza incontrare resistenza e non hanno nemmeno riconosciuto i terrestri come creature intelligenti o almeno senzienti ma continuano a cercare di sterminarli come parassiti.
Costretto alla fuga, Eric si unisce ad un altro gruppo di superstiti di altre tribù ed insieme esplorano l’enorme edificio dei Titani in cui hanno scavato le loro gallerie: solo che ad un certo punto vengono catturati dai padroni di casa ed infilati in gabbie per essere studiati, né più né meno come farebbero gli uomini con le cavie o gli altri animali da laboratorio. Qualcuno viene vivisezionato, qualcun altro scompare per testare veleni o altre diavolerie ideate dagli alieni per tenere sotto controllo la popolazione umana.
Eric però viene pescato dalla gabbia per essere messo in un’altra, dove c’è una donna di un’altra tribù: in sostanza, il Titano che li studia vuole vedere se vanno d’accordo (i precedenti, rifiutati dalla donna perché autentici Selvaggi, un ceppo di subumani che hanno ormai perso la ragione, erano stati subito prelevati dalla gabbia ed uccisi) e, visto il reciproco interesse, se ne va soddisfatto.
La giustizia cosmica condanna l’umanità
Qui succedono le solite cose che ci si può aspettare: i due si innamorano, anche se a differenza delle classiche storie di questo tipo è la donna, Rachel, a prendere l’iniziativa e a guidare Eric, che poi non è altro che un barbaro ignorante. Rachel infatti è una scienziata e proviene da un popolo leggendario di inventori, gli Aaron: è suo compito quindi ragguagliare Eric ed il lettore sugli eventi passati e sulla situazione. Ed è lei a dare le prime martellate al mito dell’uomo signore del creato, perché paragona l’invasione degli alieni e la conseguente caduta dell’uomo dal suo trono all’operato di una sorta di giustizia cosmica – o di Dio stesso – che in questo modo ha voluto punire la crudeltà e la superbia del genere umano. Osserva infatti che, se era giusto ciò che l’uomo faceva ai suoi simili ed ad ogni altra creatura vivente, natura inclusa, allora deve essere giusto anche quello che gli alieni stanno facendo adesso all’uomo.
Più avanti viene gettato nella gabbia anche Roy il Corridore, l’unico sopravvissuto della banda dello zio di Eric, ed assieme progettano l’evasione, che riesce. Alla fine delle loro avventure i tre raggiungono la zona in cui abita la gente di Rachel, il leggendario popolo di Aaron, molto più avanzato di ogni altra tribù di umani vista sinora: qui fervono i preparativi di fuga, perché i Titani hanno trovato il modo di gassare i cunicoli (che, alla fine, sono proprio scavati nei muri delle loro abitazioni come suggerisce il titolo italiano).
È ora infatti che l’uomo abbracci la sua vera natura: in un altro fervorino scritto per scuotere le convinzioni del lettore, il capo di questa gente completa il lavoro iniziato da Rachel e paragona l’uomo ai parassiti: «L’uomo infatti ha alcune caratteristiche fondamentali in comune col topo e con lo scarafaggio: mangia quasi di tutto, è molto adattabile e riesce a vivere in quasi tutte le condizioni. Può sopravvivere come individuo, ma preferisce riunirsi in gruppo. E se possibile preferisce vivere di quello che altre creature hanno prodotto naturalmente o artificialmente. È quindi inevitabile concludere che è stato designato dalla natura a essere una specie di parassita di categoria superiore, e solo la mancanza di un ospite abbastanza ricco nel suo primitivo ambiente gli aveva impedito di assumere il ruolo di eterno ospite, costringendolo a vivere, famelico, insoddisfatto e irritabile, delle risorse che riusciva a procurarsi».
Il più grande parassita dell’universo
Così il destino dell’uomo è sì di raggiungere le stelle e gli altri pianeti, ma non da conquistatore come abbiamo sempre creduto, bensì da parassita, e adattarsi a vivere secondo questa sua predisposizione: ossia tormentando i Titani e vivendo alle loro spalle.
Così i tremila e forse più componenti del popolo di Aaron iniziano l’esodo che li porterà in un’astronave dei Titani con la quale raggiungeranno da clandestini tanti nuovi mondi, alcuni di quelli già colonizzati dagli alieni: ad ogni tappa, un gruppo scenderà a terra e si stabilirà sul nuovo pianeta (è già stato stabilito che i Titani hanno bisogno di un ambiente simile alla terra per sopravvivere, quindi le condizioni sono ideali anche per gli umani), tenendosi nascosto finché non sarà abbastanza forte e numeroso per mostrarsi o prendere l’iniziativa.
Ed Eric è il capo di uno di questi gruppi.
Un libro che non si dimentica
Si tratta di un romanzo breve, quindi la storia scorre abbastanza veloce: non ci sono troppe pause e quelle che ci sono sono brevi, necessarie per aggiungere alcuni elementi, come appunto spiegare la storia dell’invasione o scagliare i pistolotti sulla punizione divina, sull’intima natura dell’uomo e sul suo ruolo nell’universo. I protagonisti sono funzionali al compito che devono svolgere e, quando non servono più, scompaiono senza lasciare traccia: ma anche gli stessi protagonisti, come Eric e da un certo punto in poi Rachel, non sono nemmeno così centrali alla storia perché vengono semplicemente sfruttati come punto di vista attraverso il quale viene raccontata la storia, perché l’autore è più interessato a fare della satira e a dissacrare le convinzioni più radicate della fantascienza che a tessere una trama attorno alla personalità dei suoi personaggi.
Anche se alla fine la storia è quello che è, il libro merita per le idee, che sono così originali e brillanti che rimangono fissate nella mente per decenni: «Gli uomini nei muri» è un libro difficile da dimenticare, segno che l’autore ha colto nel segno. Prova ne sia che l’avevo letto per la prima volta almeno una ventina di anni fa e, a distanza di così tanto tempo, ne ricordavo ancora le linee essenziali, finale incluso.